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  • La Trama Fenicia

    La Trama Fenicia

    Lo spregiudicato affarista e mercante d’armi Zsa Zsa Korda (Benicio Del Toro) sopravvive all’ennesimo attentato. Afflitto dai rimorsi di coscienza, convince la figlia Liesl (Mia Threapleton), educata dalle suore e in procinto di diventarlo, a unirsi a un suo rischioso piano infrastrutturale per risollevare la Fenicia, un fittizio paese del Medio Oriente. Tra le sordide manovre dei governi, l’ostilità degli investitori e le macchinazioni di terroristi internazionali, la missione metterà a dura prova il rapporto tra Korda e la figlia ritrovata.

    Quand’è che un autore diventa la parodia di se stesso? Forse quando non ha più nulla da insegnare, quando non sa più sorprendere, quando la lezione gli è sfuggita di mano e chiunque, bravo o meno, ne fa ormai quel che vuole. Tale è la sorte che pare essere toccata a Wes Anderson, da tempo consacrato a maestro moderno del cinema. Non si pretende che un regista cambi o venga meno al suo stile, ma il rischio di musealizzarsi da sé è sempre dietro l’angolo: lo aveva capito pure Edgar Wright (regista non meno ossessivo di Anderson), che con Ultima Notte a Soho aveva preferito alienarsi la folla.

    L’inventario del cinema di Anderson c’è proprio tutto: famiglie disfunzionali, paesaggi-cartolina, la scrittura asciutta e flemmatica delle opere migliori; la misura è quella solita, la cifra di un’amatorialità fattasi cristallino virtuosismo tecnico; lo stile è quello del miglior elzeviro filmico, citazionista, decorativo, europeo come solo un texano sa essere. Eppure manca qualcosa, un vuoto enorme sembra giacere al fondo de La Trama Fenicia.

    Nel mezzo secolo che separa quest’ultima fatica da I Tenenbaum, sono accadute parecchie cose: lodi ormai d’ufficio, moderato e costante successo di cassetta, una nicchia nell’olimpo dei grandi pazientemente incisa nell’immaginario cinefilo.

    Nel frattempo lo stile si è fatto stilema, da forma significante è diventata filtro, forma memica da appiccicare un po’ su tutto: non per niente Anderson è forse il regista più imitato sulla Rete, dai tik-toker all’intelligenza artificiale (a cui certo le tante camere fisse hanno reso il gioco più facile). Il carrozzone del successo ha sempre trovato qualche buca, nel dibattito continuo e infruttuoso tra forma e sostanza – come se in Anderson la prima non fosse sempre stata la qualità più autentica e vibrante della seconda.

    Non che La Trama Fenicia non sia buon intrattenimento: il caleidoscopio delle invenzioni non scorda i trucchi di repertorio, la scrittura spinge a passo spedito una narrazione così tortuosa da farsi tappeto, rumore di fondo da accompagnare lo spettacolo, ossia quel che costituisce in Anderson il vero piacere della visione. A mancare è qualsivoglia senso profondo, qualsiasi cosa che vada al di là di verità rassicuranti. La smania classificatrice di Anderson è immutata, ma alla sua Wunderkammer manca il difforme, l’inclassificabile, la gioia del caos e la sua sofferenza.

    D’altra parte Anderson sembrava aver già toccato il suo punto di non ritorno: il precedente Asteroid City aveva in fondo l’eloquio, se non proprio l’incedere, di un manifesto programmatico; una di quelle opere che compendiano il bene e il male di un regista ancora con delle ossessioni: il non saper stare al mondo, il doverci essere per chi invece se ne va, il sogno e l’ignoto come grande abbraccio in cui dimenticare – almeno per un attimo – le angosce dell’arrancare umano. Dopo la grande abbuffata retro-futurista, Anderson sembrava proprio aver detto tutto.

    Sparita l’ossessione, ne La Trama Fenicia rimane il mestiere, la macchineria che piace ai soliti, il balocco di un cinema rigorosamente da divano: confortante, nostalgico, cinefilo senza irruenza, ben attento a restare al di qua di qualsivoglia uscio del perturbante. Il meccanismo è da mastro orologiaio, la corsa filmica è a perdifiato, tutto scorre piacevole con la certezza di non lasciare alcun ricordo, alcuna impronta emotiva nello spettatore. Gli attori stanno in riga, comodamente noiosi ciascuno nel suo stereotipo; chi non ne ha uno, come Mia Threapleton, imita chi l’ha preceduta.

    Bisogna farsene una ragione: questo è il medesimo Anderson che in Moonrise Kingdom non resisteva a un consolatorio lieto fine (che demoliva tutto quanto la prima ora aveva costruito); lo stesso che in calce a Grand Budapest Hotel aveva la faccia tosta di tributare Stefan Zweig, ma che dell’autore di Paura e de La novella degli scacchi pareva non ricordare nulla – meno che mai l’angoscia; lo stesso per cui tutto ne La Trama Fenicia, dalla speculazione finanziaria alla guerriglia militante, diventa mero oggetto di décor.

    Sarebbe perfino tollerabile, se la furia sanificatrice di Anderson non si riversasse sul cinema che ama: da Renoir ad Antonioni, al ciclopico Orson Welles di Rapporto confidenziale, tutto ciò che si ricordava tormentoso, vitale, personale, si riduce alla cartolina di un cinema che non abita più da queste parti. Non vi è omaggio che non si traduca in immagine innocua, rassicurante: perfino il calco finale da Va’ e vedi – il lancinante capolavoro antibellico di Elem Klimov – si riduce a graziosa nota di stile.

    Non cambierà probabilmente nulla per Wes Anderson e il suo piccolo mondo, il quale comprende senz’altro i suoi estimatori: a questi La Trama Fenicia sa dare esattamente quel che si vuole, senza che ci si aspetti sorprese. Non si può costringere un autore a cambiare, a costo che questi perda la sua firma: quella ormai appartiene al mondo e alle sue mode, quel mondo vero, chiassoso e palpitante, che da questo cinema non è mai parso così lontano. Rifugio, preservazione, stagnazione, ognuno scelga il termine che più gli aggrada.

    Anderson sembra aver scelto il suo veleno: che non gli faccia troppo male, e tanti saluti dalla Fenicia.

    Fabio Cassano

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  • Valerio Bruner – “Maddalena” (Ulisse Records) 2025

    Valerio Bruner – “Maddalena” (Ulisse Records) 2025

    Nell’oscurità tutti i colori si somigliano. Nei punti più bui si concentrano tutte le anime, le storie, e i personaggi che non emergono alla luce del sole. Napoli, città fatta di strati, di epoche sedimentate, è un incrocio tra la vita e la morte: chi soffre e chi vive, tra privilegio e abbandono. Un cantico, non celebrativo ma in chiaroscuro, fatto di vicoli, amore e abbandono, che restituisce il ritratto di una sirena millenaria, ribelle, anarcoide, brusca e talvolta nefasta. Dopo aver fatto la  mappatura geo-spirituale degli ultimi in “Vicarìa”, Valerio Bruner decide di rappresentarne, con un manifesto rock-urlante di “necessita ed emergenza”, il lato dell’amore sottoposto alla sofferenza, nascosto ma tagliente. “Maddalena”è l’amore buio, raccontato, narrato, in blues-rock pregno, graffiante, lontano dalla bellezza, ma meravigliosamente “sporco” e dark; enfasi che continua in Piazza Garibaldi, dove i poveri cristi sono voci e volti che si mescolano nell’inferno dell’indifferenza. Bruner è frontman, cantore di un rock duro, incalzante, di una fratellanza marginale: quella di Frat a me, storia di battaglie quotidiane e di quotidiane imprecazioni. Parole punk-rock, d’oltremanica, che sgorgano dalle vene e si fanno bollore, Sanghe di rabbia, di rivoluzione, di contrapposizione. Sono versi e rime che squarciano la realtà e appartengono a un cantautorato mai “di plastica”, artefatto, conformista, ma al contrario di lotta e di speranza: Nun te arrennere maje, dove torna il tema della vera lotta che è la vita di chi è lasciato solo ed emarginato. La vena grunge, profonda, evocativa, poetica, è racchiusa in Nisciuno se salva, atto di denuncia degli ultimi, non salvifico, ma di condanna, grido “in croce”, che riecheggia come un ammaliante atto di dolore tra chitarre e scrittura emergenziali. Bruner in questo nuovo progetto scarnifica la Napoli Stereotipata, da cartolina celebrativa, e porta alla luce con particolare forza la pietas di una città-divinità sempre più carica di figli svantaggiati che trovano la forza di restare a galla solo grazie alla speme, di cui un cantautorato denso, umano, sotterraneo, si fa messaggero vivo; canta la speranza degli ultimi e nello stesso tempo condanna la società disumana nei loro confronti. In linea con la direzione espressiva già imboccata con “Vicaria”, l’album “Maddalena” si caratterizza per una scrittura “macchiata” ma sinuosa e ammaliante, e altrettanto spontanea. Narrare dell’amore oscuro è il modo per tracciare un solco di rinascita, per disegnare uno spiraglio verso la risalita dall’interno degli abissi.

    Sergio Cimmino

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  • Furio LC Rex, l’eterno finalista del premio Urania

    Furio LC Rex, l’eterno finalista del premio Urania

    Ogni storia è una storia, ogni vita è una storia, figurarsi la vita di uno scrittore. Prendiamo ad esempio Furio LC Rex, autore ferrarese che con i suoi aneddoti, il suo passato, il suo vissuto, si dedica alla scrittura con buoni risultati anche se non abbastanza da ricavarci da vivere.
    Chi è Furio LC Rex? Il suo vero nome è Lucio Valente, e ha scelto il nome d’arte di Furio perché si ispira al condottiero romano Furio Camillo, si chiama Lucio e di secondo nome Claudio (da qui LC) e poi perché in un episodio di Star Wars il comandante dei cloni si chiama Rex.
    Come ha risposto alle mie domande?

    Parlami di te come scrittore e come persona (per quel che è possibile).

    Sebbene io non sia uno scrittore professionista, considero la capacità di ideare storie e di far vivere i personaggi, un’attività molto importante. Per me scrivere rappresenta una valvola di sfogo, un sistema per lenire lo stress di un lavoro che richiede molto esercizio di pensiero. Per questo motivo mi occupo di
    fantascienza, con una predilezione per la space opera e la military sci-fi.
    Nella vita mi occupo di strategia e di pianificazione operativa nel dominio aerospaziale. In parole povere, una volta che c’è la decisione a livello politico per un intervento militare, mi occupo di trasformare tale intento in azioni concrete da mettere in atto. È un’attività molto complessa e impegnativa, che richiede una grande fatica mentale. La scrittura mi aiuta a scaricare la tensione, naufragando in una sorta di dimensione parallela dove sviluppare storie, crescere insieme ai miei personaggi, inventare mondi nuovi.

    A volte ti presenti come “eterno finalista del Premio Urania”. Sei un vero guerriero d’inchiostro! Dimmi, come si fa ad arrivare in finale a un concorso di prestigio?

    Scrivere non è sempre facile. È un’attività che richiede dedizione, umiltà e tanto sacrificio. Per dedizione intendo la volontà di andare avanti nonostante le delusioni, anche quando si è convinti di avere un buon prodotto… che però non funziona. Allora entra in campo l’umiltà. È quella dote non comune che ti rende in grado di guardare a ciò che scrivi con occhio diverso, critico, e magari accettando i consigli di professionisti e valutatori. Sacrificio significa pianificare di nuovo, riscrivere, e alleggerire il testo perchè possa piacere alla giuria di un concorso.
    Partecipare ai contest è importante perchè permette all’autore, soprattutto se esordiente, di farsi leggere e conoscere. I concorsi non sono tutti uguali. Chi arriva in finale ha sicuramente scritto un bel testo, ma gli manca ancora il quid che consente alla sua opera di incontrare i gusti del mercato e i favori della casa
    editrice. Solo allora, può davvero vincere.

    Quali sono i tuoi progetti per il futuro?


    Per prima cosa, sono in attesa di pubblicare l’ultimo capitolo della mia trilogia “I predatori di Oran”, dal titolo “Il rogo dei dannati”. Si tratta di un ciclo space opera iniziato con la pubblicazione, nel 2021, di “Missione Oltre la Stella Madre” (finalista al Premio Urania 2019) e di “L’Apocalisse dei mondi” l’anno successivo. La saga ha riscosso molto interesse, tanto da invogliarmi a scrivere uno spin off, “Diamond Quest”, che è stato ancora una volta finalista al Premio Urania nel 2021. Entro l’anno è prevista anche la pubblicazione di una raccolta, sempre da parte Delos, nella quale ci sarà anche un mio racconto di fantascienza gotica.
    Devo ammetterlo: non voglio occuparmi solo di fantascienza. Di fatto, è in fase avanzata di stesura un romanzo di genere Techno thriller, in stile Tom Clancy. È una storia di spionaggio e di aviazione cui tengo tantissimo perché
    si basa su temi di grande attualità come la guerra in Ucraina e l’ascesa del gruppo dei
    mercenari filorussi Wagner. Basandosi sull’esperienza che ho maturato nel settore della strategia e della difesa, si può considerare questa mia ultima fatica, per certi aspetti, anche come autobiografica
    .

    Kenji Albani

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  • Vaticano, sotto il segno del Leone

    Vaticano, sotto il segno del Leone

    È iniziato il nuovo pontificato di Leone XIV, conosciuto anche come Papa Prevost, diventando ufficialmente così il 267esimo pontefice della storia e, di fatto, ha già fatto parlare di sé.
    Robert Francis Prevost nacque il 14 settembre 1955 a Chicago, da madre con origini spagnole e padre di origini franco-italiane. Infatti, il nonno era italiano.
    Nella prima fase della sua vita, studiò al Seminario minore dei Padri Agostiniani, per poi trasferirsi in Pennsylvania, dove conseguì la laurea in Matematica e Filosofia alla Villanove University. Successivamente entrò a far parte dell’Ordine di Sant’Agostino fino a prendere i voti solenni il 29 agosto 1981.
    Già dal 1985 inizieranno le sue missioni agostiniane, che inizieranno da Chulucanas, in Perù, dove rimase per un anno. Soltanto nel 1988 tornerà nello stesso Paese, ma questa volta a Trujillo e per molto più tempo. Infatti, iniziò a dirigere il seminario maggiore locale, diventando così una figura centrale per la congregazione agostiniana in Sud America. Di fatto, oltre ad avere un legame profondo con il subcontinente, dimostrato anche dalla sua cittadinanza acquisita, anche Papa Francesco riconobbe la sua importanza, nominandolo vescovo di Chiclayo nel 2015. Inoltre, solo tre anni dopo, fu eletto secondo vicepresidente della Conferenza
    episcopale peruviana.
    Robert Prevost arrivò a Roma solo il 30 gennaio del 2023, quando l’ex Pontefice lo promosse arcivescovo. A neanche un anno di distanza, gli fu assegnata la diacona di Santa Monica, diventando effettivamente cardinale. In questo lasso di tempo, il neo-Papa diventò una figura centrale nel governo dello Stato del Vaticano, facendogli guadagnare punti tra i cardinali elettori. Il suo ruolo di primo piano nella Curia romana, insieme all’esperienza missionaria maturata in America Latina, hanno contribuito alla scelta che ha portato alla fumata bianca delle 18:08 dell’8 maggio 2025, segno della sua elezione alla guida della Chiesa.
    Nella sua prima apparizione pubblica come nuovo Papa, poco dopo essere stato eletto, abbiamo potuto vedere Leone XIV, commosso, che salutava i fedeli in Piazza San Pietro dalla Loggia delle Benedizioni. In quel momento, erano presenti oltre 150mila persone secondo le stime ufficiali e chissà quante altre stavano guardando la diretta televisiva.

    Le reazioni dei leader mondiali

    All’annuncio dell’“Habemus Papam”, è seguita una pioggia di reazioni da parte dei leader mondiali. Tra i primi a esprimersi Volodymyr Zelensky, che ha ringraziato la Santa Sede per il sostegno morale all’Ucraina, e Vladimir Putin, che ha parlato di una possibile collaborazione
    con il Vaticano nel segno dei valori cristiani condivisi.
    Anche Trump si è detto contento che il nuovo Papa sia un connazionale e, parlando dei negoziati di pace tra Russia e Ucraina, ha anche affermato: “Penso che sarebbe una grande idea farlo in Vaticano, forse avrebbe un significato ulteriore”.
    Tuttavia, non ci sono state solo reazioni positive, soprattutto per quanto riguarda la “MAGA” americana. Di fatto, nonostante la reazione apparentemente positiva del Tycoon, molti esponenti della destra statunitense si sono dichiarati contrariati dalla scelta di Prevost. Infatti, il nuovo Papa era attivo su X (ex Twitter) già da quando era cardinale e non si è risparmiato critiche verso le politiche di J.D. Vance, Vicepresidente Usa, e Donald Trump stesso. Per questa ragione, molti esponenti conservatori americani lo hanno bollato come marxista, prima tra tutte Laura Loomer che ha definito Leone XIV: “anti-Trump, anti-MAGA, favorevole alle frontiere aperte e un marxista totale come Papa Francesco”.

    Nonostante ciò, lunedì 19 maggio, c’è stato un colloquio tra Vance e il nuovo Pontefice. Tra i due c’è stato anche uno scambio di regali: Leone XIV ha ricevuto una maglia dei Chicago Bears e una lettera di Trump che lo invita ufficialmente alla Casa Bianca, mentre il Vicepresidente ha ricevuto una scultura di un fiore in bronzo su cui è inciso “La pace è un fiore fragile”.

    Matteo Boschetti

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  • “La commedia dell’arte” di Luca Beatrice

    “La commedia dell’arte” di Luca Beatrice

    La commedia dell’arte, opera postuma di Luca Beatrice, attraversa riflette e fissa i punti fondamentali non solo dell’arte contemporanea, ma dell’arte al tempo del contemporaneo, esaminandone – trasversalmente, i fenomeni culturali sociali e antropologici che da essa derivano.
    Di facile e immediata fruibilità, la lettura si caratterizza attraverso l’analisi dei molteplici mestieri di Beatrice. Docente presso varie accademie italiane, critico d’arte, curatore e saggista Luca Beatrice pone con chiara evidenza i confini labili dei ruoli dell’artista che poi diventa curatore, organizzatore, lui stesso opera d’arte. Evidenzia le politiche di mercato, in modo estremamente critico polemico provocatorio, interrogandosi su quale possa essere il destino dell’arte e delle sue opere nell’epoca degli influencer e degli ”artivisti” dove la digitalizzazione e i social, caratterizzati da una comunicazione rapida e veloce pronta ad essere dimenticata per passare al contenuto successivo, sia capace di cambiare il destino dell’arte e delle sue opere.

    Luca Beatrice è chiaro, senza mezzi termini: non ci sono opere epocali capaci di entrare nel patrimonio culturale.

    Con questa affermazione ne valuta la possibile fine?

    E ancora, si chiede quale fine abbiano fatto gli artisti, così come li abbiamo conosciuti per secoli.

    La street art e l’arte pubblica, ad esempio, sono tra i temi esaminati in quello spoglio paesaggio di una vecchia e ormai decrepita contestazione politica sostituita dal concetto di fluidità, termine che dà accesso a un preciso modo di pensare – preciso ma labile al tempo stesso, forse indicativo, in cui anche il luogo del museo viene confuso e percepito come opera d’arte e dove nelle mostre internazionali la presenza delle donne pare essere obbligatoria (socialmente) e urgentemente proveniente quasi sempre dalle ”periferie” – non più zone di una città ma concetto ideologico capace immediatamente di portare alla luce quegli aspetti (cosiddetti) politici evidenziati nella targhetta sottostante l’opera dove in primis appaiono le caratteristiche sociali, poi il nome dell’artista o più semplicemente dell’esecutore o di colui che ha realizzata l’opera e, solo per ultima, compare la dicitura artista.

    La partecipazione femminile, in una precisa percentuale, è un tema che non deve essere un principio, pensa Beatrice. Anche attraverso questo canone decade la scelta della ”qualità delle opera”. Eccone il principio secondo il quale per Luca Beatrice l’arte contemporanea “non sforna capolavori”. Anche la tecnica e l’estetica sono il risultato di una mediocre antropologia fondata sul significato più vicino al messaggio che l’artista vuole dare quando poi non è totalmente sostituito dalla volontà e dalla poetica del curatore che prende arbitrariamente il posto e il ruolo del critico e dello storico.

    Quando esamina la Street Art e il Graffitismo, chiedendosi se e come si equivalgano ricorda che entrambe nascono da una sotto cultura che lotta, dichiarandosi antagonista contro l’elitarismo dei musei che, insieme alle gallerie, vengono percepiti come spazi o luoghi di acquisto determinandone il valore dell’opera in denaro, più spesso considerato eccessivo.

    Beatrice ne discute anche il ruolo dell’artista che passa dalla grande popolarità a vero protagonista del processo della commercializzazione dell’opera.

    Tra gli altri ricorda il caso di Banskiy del quale alcune opere sono state valutate 4 milioni di dollari per arrivare alle opere pop che fanno delle rotonde spartitraffico delle vere ”rotonde pop”.

    Ciò che Luca Beatrice vuole sottolineare tra i molti temi affrontati è quella incoerenza di fondo, quell’opportunismo che si maschera dietro la non sincerità e urgenza di alcuni artisti contemporanei.

    La commedia dell’arte è una riflessione critica sul presente dell’arte. L’autore vuole provocare una discussione e riflessione profonda e critica sul futuro dell’arte e della sua stessa storia ri-considerandone il ruolo dell’opera nella moderna società contemporanea.

    Claudia Dell’Era

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  • A qualcuno piace Lemmon

    A qualcuno piace Lemmon

    Non c’è bisogno di particolari ricorrenze per apprezzare l’eredità artistica di Jack Lemmon. Un talento come quello di un artista che ha così impreziosito oltre mezzo secolo di cinema non è da commemorarsi né da celebrarsi di circostanza: è piuttosto da vivere un film per volta, lasciandosi trascinare dall’inestinguibile vigore di un attore che è autore vero. Lemmon appartiene alla miglior tradizione dei tanto vituperati face-makers, quelli che da Peter Lorre a Willem Dafoe e Jim Carrey costituiscono da sempre la carta matta del gioco attoriale.

    Pochi, pochissimi come Jack Lemmon hanno saputo mescolare così sapientemente, con tanta istintuale saggezza del corpo, i tratti della commedia e del dramma, entro un movimento magmatico in cui un estremo ne chiama l’altro senza requie.

    Si può senz’altro dire che Lemmon ha saputo rivelare come nessun altro la fisionomia dell’homo nevroticus, l’uomo da poco o niente nella giungla dell’umano arrabattarsI; Una qualità di giocare a nervi scoperti senza cui L’Appartamento – del pur maestro Billy Wilder – non sarebbe forse il capolavoro che è. Lemmon si aggira stranito, disperato, pieno di tic e magre speranze, in un’opprimente distopia moderna tra Kafka e Jacques Tati; il suo Baxter vive per lavorare e lavora per vivacchiare, presta il suo appartamento agli adulteri dei piani superiori; spera che tanta meschinità possa renderlo un giorno felice. A salvarlo è una ragazza sull’orlo del baratro (una splendida Shirley McLaine), e il rispetto di sé che non sapeva di avere.

    Lo stesso amor proprio è il sacro Graal di un altro capolavoro, I Giorni del Vino e delle Rose: Blake Edwards, una volta tanto lontano dalla commedia, è in stato di grazia creativa; Lemmon e Lee Remick reggono il film con un duetto che è purissimo dramma, di una verità troppo autentica per non far male. Joe e Kirsten sognano l’amore vero, ma non hanno fatto i conti col più crudele dei demoni: quello nella bottiglia.

    È anche nella struggente, febbrile prestazione dei due che l’opera di mastro Edwards è il degno erede di Giorni Perduti, il film con cui Wilder (e chi altri?) aveva narrato come nessun altro prima l’incubo dell’alcolismo. Certo vi è del vero: anni dopo, Lemmon ammetterà il disastro che l’alcool stava facendo della sua vita, e andrà anche lui come Joe a disintossicarsi.

    È ancora Wilder a fare di Lemmon il suo paladino: A qualcuno piace caldo è un formidabile viaggio nella trasgressione, un caleidoscopio che il duo Lemmon/Tony Curtis regge battuta su battuta. Wilder è un tiranno, ma uno come Lemmon non lo si può contenere: lo lascia fare, e meno male, giacché la sua interpretazione en travesti è una delle cose per cui benedire i Lumière; l’energia è incontenibile, l’immersione è totale, la faccia di gomma dell’attore colpisce forte quanto le mitragliate nel finale. Non sarà l’ultimo duetto con Curtis (seguirà l’epopea farsesca La Grande Corsa, ancora sotto la frusta di Edwards), né con Wilder: da Irma la Dolce (ancora con McLaine) a Prima Pagina, se ne vedranno delle belle; compreso l’incontro con Walter Matthau, per uno dei migliori sodalizi che si possano chiedere al cinema. Non per niente sarà proprio Matthau al centro di Kotch (in Italia Vedovo aitante, bisognoso affetto offresi anche babysitter), prima e unica regia di Lemmon.

    Una vita gregaria, quella dell’artista Lemmon: sempre una stella, ma mai timorosa della luce altrui. Lo sanno bene i tanti registi con cui ha lavorato: da Robert Altman a Stuart Rosenberg, ad Arthur Hiller che in Un provinciale a New York ne fa l’incarnazione della nevrosi moderna.

    E lo sanno bene anche gli attori; come Mastroianni, con cui Lemmon duetta nel tenerissimo – seppure imperfetto – Maccheroni di Ettore Scola. Dei due, Mastroianni è il napoletano vero: poetico, scaltro, popolare e signorile, vitale e dolente come chi sorride all’ombra del vulcano; Lemmon è il disilluso tycoon d’oltreoceano, perso nella città vista solo in guerra tanti anni prima. Lemmon e Mastroianni si stuzzicano, si rispecchiano, le loro umanità sanguinano una nell’altra; Scola li asseconda, cuce il film intorno alla filmografia passata dell’attore (le citazioni si sprecano) e fa di Napoli lo scenario mistico di un’irresistibile favola dell’amicizia. Sconfinata è la dolcezza del Jack Lemmon senile: nessuno sa guardare nel vuoto come lui e far riverberare, nello sguardo ancora vivido, tutta una vita di dolori e piccole gioie.

    I giorni del vino e delle rose saranno anche brevi, ma basta rivedere quel volto per ricordarli, e sorridere.

    Fabio Cassano

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  • Rossella Sambuca: “Forza Napoli, riprenditi il tricolore!”

    Rossella Sambuca: “Forza Napoli, riprenditi il tricolore!”

    In esclusiva per “Il Cappuccino” la giornalista sportiva napoletana Rossella Sambuca, conduttrice di “Calcio, caffè e Sambuca”, programma  in onda su Campi Flegrei. Ci risponde su come andrà a finire il campionato e sulle possibilità del Napoli di Conte di riuscire a superare l’Inter in questa lotta a due che sta caratterizzando il finale di stagione.

    Le chiederemo inoltre le sue favorite per la vittoria in Champions ed Europa League e se può fornirci il nome di qualche giovane promessa del calcio mondiale.

    Rossella: Napoli o  Inter, chi si aggiudicherà lo scudetto 2024/25?

    Manca poco a quella che può diventare la giornata più importante dell’era Conte a Napoli. Dopo il pareggio con il Parma, e grazie anche al pareggio al 90’ della Lazio contro l’Inter, tutto si deciderà venerdì 23 maggio alle 20.45. Si, la data ultima, giorno in cui i partenopei si giocheranno i novanta minuti più importanti di tutta la stagione. Un solo imperativo: VINCERE!
    La tensione è alta ma Conte sa gestirla. Venerdì tutta la città aspetta di festeggiare, dipende solo da noi. Per me il Cagliari non si deve neppure spogliare, i giocatori devono far capire chi comanda in campo soprattutto perché c’è in palio il tricolore.
    Il margine di errore si è azzerato: ora si gioca tutto in 90 minuti, il destino è nelle mani del Napoli, che guida la classifica con un punto di vantaggio sull’Inter. Nessuno si aspettava che si raccogliesse un sol punto contro il Genoa e il Parma, non voglio parlare di errori che sono stati commessi, piuttosto il mio mantra è mantenere alta la concentrazione. Le gare vanno giocate fino alla fine, se il Napoli saprà gestire bene potrà vincere questo scudetto mai così sofferto.

    Conte Vs De Laurentis: abbiamo sempre più a che fare con un matrimonio che, parafrasando il Manzoni dei Promessi Sposi, non s’ha da proseguire. Diversamente su quali basi potrebbe? 

    Indipendentemente dallo scudetto, il Napoli l’anno prossimo dovrà disputare la Champions e non potrà farlo con questa rosa che ha a disposizione il tecnico in questo momento. Sappiamo tutti che Conte è un allenatore esigente. Se il Presidente gli costruisce una squadra degna degli impegni che dovrà sostenere il prossimo anno, credo che lui resti. Ma se non lo fa, non ci penserà due volte ad andare via. Bisogna decidere cosa fare da grandi. 

    Champions League ed Europa League: le tue favorite? L’Inter che possibilità ha in finale di Champions e cosa occorre perché il calcio italiano sia come nazionale sia come club possa svolgere un ruolo da protagonista?

    L’Inter è approdata in finale battendo il Barcellona che per me, nonostante una difesa non eccellente, è una delle squadre più forti, un connubio tra calcio e spettacolo. 

    Ha fatto una partita di forza e di carattere, se la giocherà a viso aperto con un altro colosso del calcio, il PSG. 

    Musica diversa invece in Europa League, dove la Lazio è uscita ai quarti, e ai rigori, per mano del Bodo all’Olimpico.
    Purtroppo le squadre italiane mostrano spesso delle difficoltà nel confronto con i club stranieri, loro hanno tutto un altro modo di fare calcio, investono sui giovani, li crescono.

    Torniamo al Napoli: l’arrivo di un tecnico vincente come Antonio Conte può permettere alla squadra azzurra di restare ai vertici del calcio che conta soprattutto se continuerà il matrimonio con De Laurentiis?

    Appena Conte è stato accostato al Napoli non mi aspettavo niente di meno di un calcio importante. Sentivo, naturalmente, che con lui alla guida il Napoli, dopo la brutta parentesi dello scorso anno, sarebbe tornato a occupare posizioni di rilievo. Ma come ho già detto prima, bisogna rivedere la rosa, l’anno prossimo gli impegni saranno molteplici e solo con una “attrezzatura” adeguata si potrà far fronte a tutto, senza andare incontro a  brutte figure. 

    Calcio internazionale: quali sono secondo te i possibili campioni del futuro, gli eredi di Messi e Ronaldo”?

    Inutile dire che sono rimasta folgorata da Lamine Yamal: per le sue giocate, per il modo di affrontare gli avversari, senza paura, ma soprattutto per la sua giovane età. Qui in Italia i 2007 sono considerati under nelle categorie dilettantistiche e addirittura hanno bisogno di farsi sponsorizzare per giocare… Ma questa è un’altra storia. 

    Ringraziamo Rossella Sambuca.

    Stefano Marino

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  • Nero Nelson – Canzoni per tornare insieme o lasciarsi per sempre (Phonotype Records)

    Nero Nelson – Canzoni per tornare insieme o lasciarsi per sempre (Phonotype Records)

    Tornare dopo dieci anni, perché si ha qualcosa da dire; raccontare di bellezza e amore, sempre con ironia e la consueta sensibilità figurativa e descrittiva. Nero Nelson, cantautore, talento dei testi, autore prezioso per musica e cinema (Ammore e Malavita dei Manetti Bros, vincitore di 5 David di Donatello, Il ladro di giorni, Dadapolis), incarna l’anima disincantata e immaginifica di una Partenope quasi in chiaroscuro. Una triade, Gnut-Nelson-Raiz, che si allarga ad artisti come Tartaglia Aneuro in un disco sonoro, ricco di elementi narrativi, tra variabili speranze, delusioni e personaggi. Nelson è una penna da scrittore: la sua vena ironica a tratti irriverente risalta nei ritratti cantautorali del suo Francè ed esalta i lati profondi, volubili, ambigui, quasi folli di un animale notturno voglioso e bisognoso di libertà come Tartaglia. Nel suo stile di storyteller c’è spazio, non senza toni spigolosi, per il profondo cantautorato dell’amore, dramma graffiante, con la voce di Raiz a donare un tocco teatralizzante e agognante. Ed ecco L’addore forte d’o mare: tra poesia e lontananza, ritorni e attese. Corde della chitarra e corde vocali: un senso di spiazzamento, che si ritrova con estrema brillantezza anche in L’Iva e l’amore, armoniosa ma riflessiva, capace di destabilizzare e comprendere. Nelson, che ci ricorda che la musica è la via più diretta per decifrare gli enigmi dell’amore, struttura questo album su un doppio binario, quello della leggerezza e quello dell’intensità. Un progetto ottimamente definito, con una linea espositiva ed espressiva che gli fa trovar posto nel filone  “cinematografico”  di un cantautore strumentale, che incanta e crea spunti.

    Sergio Cimmino

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  • Andrea Franco, un autore da tenere d’occhio

    Andrea Franco, un autore da tenere d’occhio

    Nella capitale abita un autore che merita di essere tenuto d’occhio, ma avendo il peccato originale di essere uno scrittore di genere e non di narrativa mainstream, è un po’ ghettizzato, non è abbastanza conosciuto.
    Il suo nome? Andrea Franco, ed è presente su Wikipedia non perché è nato nello stesso giorno di Orlando Bloom. Il fatto che sia coetaneo del noto autore britannico, non c’entra molto, ma è solo per dare colore alla notizia.
    Vediamo come ha risposto alle domande.

    Parlami del tuo percorso di scrittore.

    Non è possibile rispondere sinteticamente a questa domanda, perché il percorso è stato lungo, è iniziato tantissimi anni fa. Oserei dire che è iniziato circa quarantatré anni fa, quando all’asilo chiesi di imparare a leggere. Ecco, uno scrittore inizia dalla lettura. Pochi mesi dopo iniziai a studiare il pianoforte e avevo forse sei o sette anni quando composi le prime canzoni. Oggi ho quarantotto anni e ricordo alcune tappe di questo lungo viaggio: un raccontino scritto al secondo anno delle superiori (“Il migliore”), corretto con gentilezza dal un docente di filosofia; i primi racconti che ho vinto o che mi hanno visto in buoni piazzamenti (Telescopio, un evento locale, col raccontino “Tre semplici sconosciuti” e il Neropremio con “La buonanotte del demone”). In mezzo tantissime letture, tanta curiosità, tanta emulazione che poi con gli anni ha trovato una via personale, tanti errori, tanto studio, la tecnica, lo stile, altre letture, spaziando tra tanti generi: fantascienza, fantasy, avventura, gialli, thriller, storici, mainstream. Tanti fumetti, su tutti Dylan Dog che ho amato tantissimo e che ho perso un po’ con la sciagurata gestione Recchioni, e Dago. Poi le prime pubblicazioni con racconti che si erano ben piazzati a dei concorsi, parlo dei primissimi anni del secolo (fa effetto dirla così, adesso). E il 2009 anno importante, con una buona pubblicazione con Delos Books e il primo contratto con Mondadori. Ancora studio, perfezionamento, ancora tanti libri letti, confronti, testardaggine. Il 2013 anno importantissimo con due romanzi usciti con Mondadori, le prime pubblicazioni davvero importanti. Leggo e scrivo da sempre. Continuerò a farlo. A prescindere da contratti, editori, fortuna. Perché le parole e la musica sono il mio mondo, e senza non posso stare.

    Qual è la pubblicazione a cui sei più affezionato? E quella che è più popolare fra i tuoi lettori?

    Tutte domande facili, vero? Be’, ce ne sono diverse. Senza dubbio la vittoria al Premio Tedeschi del 2013 con il romanzo “L’odore del peccato” è fondamentale. Ma provo molto affetto per “1849: guerra, delitti, passione”, anche se uscito solo in digitale e senza troppa fortuna. Forse, per conoscermi meglio, un lettore dovrebbe leggere “Negli occhi di Hanya” (Delos Books), uscito qualche anno prima anche col titolo “Senza preavviso” (Mondoscrittura). Sicuramente la serie di
    Verzi e la serie El Asesino (Rey Molina – Segretissimo Mondadori) sono le pubblicazioni più popolari.

    Cosa stai scrivendo è quali sono i tuoi progetti futuri?

    Ultimamente mi sto dedicando a romanzi non di genere, o con aspetti legati a thriller psicologici. Vorrei seguire questa strada, parallelamente ai lavori teatrali. Forse, dico forse, anche finire un romanzo di fantascienza rimasto fermo agli ultimi capitoli. Vedremo. Il mio sogno, quando avevo quindici anni, era Urania, vincere il premio. Magari è ancora possibile. Nel mentre, attendo di sapere se qualche editore crede nel mio ultimo romanzo. Poi vi dirò.

    Kenji Albani

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  • Victor Hugo: I lavoratori del mare

    Victor Hugo: I lavoratori del mare

    Meraviglioso affresco di un angolo di mondo selvaggio e primitivo, dove la vita degli uomini trascorre in balia della natura, il romanzo, apparso per la prima volta nel 1866, è dedicato all’isola di Guernsey, nel nord della Francia, dove Victor Hugo trascorse un lungo periodo in esilio ed in cui la storia è ambientata.
    Nel cuore di quest’isola, infatti, sferzata dal vento spesso impietoso e circondata da un mare che può essere benevolo e ostile al tempo stesso, si snodano le vicende di Gilliat, un giovane uomo che vive in disparte e in solitudine dei frutti del proprio lavoro di pescatore, quasi un derelitto, un emarginato all’interno della piccola comunità che popola il villaggio di pescatori, fatto di casupole di pietra e viottoli che sbucano sulle spiagge.
    La vita del giovane, che scorre monotona e appartata, è sconvolta dall’improvviso amore per una fanciulla, Deruchette, nipote dell’armatore Lethierry.
    Gilliat, illudendosi che anche la fanciulla lo ami, la segue di nascosto, ne ascolta il canto, ne studia le abitudini, ma non osa dichiararsi apertamente finchè una tragedia inaspettata non travolge il paese e l’armatore in particolare: una sua nave naufraga contro una scogliera che tutti i naviganti della zona tendono ad evitare proprio per la sua pericolosità.
    Dinanzi alla disperazione di Lethierry, che di quella nave ha fatto il suo motivo di vita, Deruchette promette davanti a tutti di sposare l’uomo che riuscirà a riportarne intatto il motore, nonostante in cuor suo la fanciulla sia già innamorata di un uomo.
    Gilliat, che sente quella promessa, decide allora di accettare quella folle sfida e salvare la nave per poter sposare la ragazza.
    Comincia così una vera e propria piccola epopea racchiusa nel cuore del libro e che dello stesso rappresenta la parte più affascinante, ovvero la narrazione delle imprese incredibili che il giovane uomo, tutto teso al raggiungimento del suo sogno d’amore, deve sostenere non contro un avversario umano, ma contro la Natura e il Mare, avverso le cui forze Gilliat porta avanti una lotta disperata e immane che non è solo finalizzata a salvare il motore della nave, ma a preservare in alcuni momenti la sua vita stessa.
    Memorabili e bellissime per la potenza drammatica ed evocativa sono le pagine in cui l’uomo lotta contro una gigantesca piovra che lo attacca e rischia di ucciderlo così come incredibilmente romantici restano i notturni dipinti e l’analisi delicatamente rappresentata dell’animo di Gilliat, del pensiero ricorrente di Deruchette e dell’amore immenso e quasi infantile nella sua grandezza che l’uomo, in apparenza rude, prova per la fanciulla.
    La lotta sarà vinta dal protagonista, ma il finale amaro e altissimo allo stesso tempo, rappresentativo del suo animo e del sentimento incommensurabile provato, la renderanno agli occhi dei più quasi vana, eppure è in questo che l’insegnamento dell’autore si rivela, in quella che è una storia d’amore vero e puro, differente da ogni sentimento di interesse e di possesso che tutti coloro che circondano Gilliat può provare.
    Il romanzo, nonostante non sia tra i più celebri del grande scrittore francese, racchiude però in sé pagine altissime di poesia assolutamente indimenticabili ed il finale è tra i più emozionanti di tutta la letteratura grazie all’ultima immagine offerta al lettore incredulo: quella dell’immobilità del triste protagonista con gli occhi fissi alla nave ormai lontana e della marea che invece, imperturbabile ed inarrestabile, come ogni forza della Natura, sale intorno a lui.

    Vittoria Caiazza

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