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  • Le vitamine: miniera di salute

    Le vitamine: miniera di salute

    Le vitamine in cosmetica svolgono un ruolo importante per la salute e per la bellezza di pelle, capelli e unghie. Eccone i benefici, vitamina per vitamina.

    :

    Vitamina A (Retinolo e suoi derivati):

    • Stimola la produzione di collagene ed elastina.

    • Riduce rughe e linee sottili.

    • Uniforma il tono della pelle e riduce le macchie.

    • Aiuta contro acne e imperfezioni.

    Indicata per: pelle matura, acneica, con discromie.

    Vitamina B3 (Niacinamide):

    • Rinforza la barriera cutanea.

    • Riduce rossori, irritazioni e pori dilatati.

    • Migliora l’idratazione e la luminosità della pelle.

    • Aiuta a regolare la produzione di sebo.

    Indicata per: pelle sensibile, grassa, spenta o reattiva.

    Vitamina B5 (Pantenolo):

    • Azione idratante, lenitiva e riparatrice.

    • Favorisce la rigenerazione cutanea.

    • Calma le irritazioni e riduce arrossamenti.

    Indicata per: pelle secca, sensibile o danneggiata.

    Vitamina C (Acido ascorbico):

    • Potente antiossidante: protegge dai radicali liberi.

    • Illumina l’incarnato.

    • Stimola la produzione di collagene.

    • Riduce le macchie scure e l’iperpigmentazione.

    Indicata per: pelle spenta, con macchie, matura.

    Vitamina E (Tocoferolo):

    • Antiossidante: protegge dai danni ambientali.

    • Previene l’invecchiamento precoce.

    • Idrata e migliora l’elasticità della pelle.

    Indicata per: tutti i tipi di pelle, soprattutto secca e matura.

    Vitamina F (acidi grassi essenziali):

    • Rafforza la barriera lipidica cutanea.

    • Nutre la pelle in profondità.

    • Aiuta contro secchezza e desquamazione.

    Indicata per: Pelle secca, atopica, con dermatiti.

    In sintesi:

    Le vitamine in cosmetica agiscono principalmente come:

    • Antiossidanti (contro invecchiamento e stress ossidativo)

    • Idratanti e lenitive

    • Illuminanti e uniformanti

    • Rigeneranti e riparatrici.

    Alice Freddi

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  • Futurismo e futuristi siciliani

    Futurismo e futuristi siciliani

    Dopo il noto in-successo romano della mostra dedicata al Futurismo, in Sicilia, tra Enna e Catania, a Centuripe, da sabato 21 giugno 2025 anche i futuristi siciliani avranno il loro glorioso spazio sino al prossimo 4 novembre.
    È il Centro Espositivo Antiquarium, situato nel chiostro di un ex-convento agostiniano e inaugurato soltanto nel 2021, a portare alla luce, sotto l’attenta direzione della curatrice Simona Bartolena, un capitolo poco noto, almeno al grande pubblico – quello del futurismo siciliano.
    La mostra è un magnifico excurcus dell’arte futurista: dall’origine del movimento – con Boccioni, Balla, Russolo e il Manifesto futurista e la sua esaltazione del ”nuovo” mondo per una nuova società moderna; alle tendenze astratte con Balla e le successive opere degli anni Trenta divise tra l’Aerofuturismo e il suo amore smodato per il volo, al Futurismo Cosmico che, invece, penetra nelle più profonde e forse, quasi ancestrali, necessità e
    inclinazioni spirituali ed esoteriche con Crali, Dottori, Fillia, Thayaht, Bruschetti.
    Restano, però, al centro della mostra i futuristi siciliani.
    Con FUTURISMO e FUTURISTI SICILIANI – con il patrocinio dell’Assessorato ai Beni Culturali e Identità Siciliana e dal Comune di Centuripe – Giulio D’Anna, Pippo Rizzo e Vittorio Corona: sono i grandi protagonisti della mostra, sembrano esser riusciti a portare avanti il discorso della tradizione e della cultura della loro
    splendida isola all’interno di un’Avanguardia così radicale proprio come quella cantata dal loro capo Filippo Tommaso Marinetti.
    Sono oltre quaranta le opere, provenienti da collezioni private, degli artisti siciliani.
    Una sola donna: Adele Gloria, poetessa, fotografa e pittrice capace di inondare un’identità artistica così de-finita come è stata quella del Futurismo con la sua
    visione poetica e personale legata all’inverosimile con la tradizione locale radicata chiara inequivocabilmente siciliana per i l’intensità e il calore dei colori.
    Una mostra che è il prodotto di una delle più belle ed esaltanti stagioni artistiche siciliane, dice Nello Musumeci.

    Claudia Dell’Era

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  • Addio a Goffredo Fofi, scrittore attivista

    Addio a Goffredo Fofi, scrittore attivista

    Anche quest’estate, purtroppo, ha portato via un altro grande nome della nostra cultura.

    L’11 luglio scorso all’età di 88 anni è scomparso, infatti, Goffredo Fofi, attivista, saggista, giornalista e grande critico cinematografico e teatrale.

    La sua intensa ed inarrestabile attività sociale, che affiancò all’attività culturale ed intellettuale, lo accompagnò per tutta la vita.

    Era nato a Gubbio nel 1937 ed ancora ragazzo, nel 1955, si era trasferito in Sicilia per partecipare attivamente alle lotte sociali contro la disoccupazione e la mafia, lotte che gli valsero un foglio di via.

    Negli anni sessanta lavora tra la Francia e l’Italia come giornalista sulla rivista cinematografica Positif, sui Quaderni piacentini, fondati insieme a Piegiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, e Ombre rosse, da lui fondata a Torino.

    Firma l’inchiesta giornalistica “L’immigrazione meridionale a Torino” pubblicata da Feltrinelli, l’editore Einaudi, originariamente contattato, si era rifiutato di pubblicarlo per quanto scritto al suo interno sulla Fiat.

    Il suo interesse per le questioni sociali ed il suo impegno attivista proseguono negli anni seguenti anche attraverso lo studio e l’analisi della questione meridionale, alla quale si avvicinò, per la quale

    conobbe e si confrontò anche con intellettuali del calibro di Gaetano Salvemini e nell’ottica della quale contribuì a creare a Napoli la Mensa dei bambini proletari. Si trattava di un istituto rivolto al sostegno dell’infanzia in situazioni disagiate nella quale venivano forniti pasti caldi e organizzati laboratori pedagogici per cercare di salvare i bambini da un destino

    di criminalità.

    La Mensa fu attiva dal 1972 ai primi anni ottanta, aveva sede nel quartiere Avvocata, nel cuore di Napoli, ed attirò l’attenzioni di molti intellettuali, fra cui la stessa Elsa Morante.

    E’ stato anche consulente editoriale oltre che direttore di varie riviste e case editoriali ed a lui si deve la scoperta di varie voci della nostra narrativa contemporanea, come Alessandro Baricco, Stefano Benni o Roberto Saviano.

    Ha collaborato anche a numerosi quotidiani e riviste come Avvenire, Il manifesto, il sole 24 ore, l’Unità, Panorama.

    Nel campo cinematografico il suo nome, però, è indissolubilmente legato a quello del Principe Antonio De Curtis, l’immortale Totò.

    Da critico Fofi ebbe, infatti, l’intuizione, il coraggio ed il genio di riscoprire e rivalutare l’opera cinematografica di Totò, fino a quel momento incredibilmente sottovalutato dalla critica ed etichettato come attore minore e di serie b.

    Fofi contribuì a rilanciare il nome del grande attore napoletano restituendo dignità e grandezza alla sua indiscussa bravura anche grazie alla pubblicazione nel 1968 del saggio Totò. L’uomo e la maschera, scritto in collaborazione dell’attrice Franca Faldini, vedova del Principe De Curtis.

    Vittoria Caiazza

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  • 28 Anni Dopo

    28 Anni Dopo

    28 Anni Dopo

    Titolo originale: 28 Years Later

    Regia: Danny Boyle

    Produzione: UK/USA, 2025

    Durata:

    Cast: Alfie Williams, Aaron-Taylor Johnson, Jodie Comer, Ralph Fiennes, Edvin Ryding

    Sono trascorsi ventotto anni dall’epidemia di rabbia che ha sprofondato la Gran Bretagna nel caos. Il dodicenne Spike (Alfie Williams) vive insieme al padre Jamie (Aaron-Taylor Johnson) e alla madre inferma Isla (Jodie Comer) in una comunità chiusa sull’isola di Lindisfarne. Spike viene condotto dal padre sulla terraferma infestata dagli infetti, come prova iniziatica per entrare nella società adulta del villaggio. È solo l’inizio, per il giovane, di un viaggio alla scoperta di se stesso e di un mondo fisicamente e moralmente distrutto dalla pestilenza.

    Non saranno realmente passati ventotto anni dacché il britannico Danny Boyle colpiva gli schermi col capolavoro 28 Giorni Dopo. Fa innegabilmente piacere riscoprire come un classico ormai consolidato dell’horror appaia, al giorno d’oggi, ancora più dirompente e attuale che alla sua uscita nell’anno di grazia 2002: in un’epoca che ha assistito a non meno di due collassi economici, uno stato di militarizzazione crescente e la più grave pandemia degli ultimi cento anni, la pellicola che immaginava il Regno Unito soccombere al virus della rabbia ha forse più da dire oggi che allora – nell’iperrealismo del suo orrore, nella pregnanza del suo dramma, nella violenza del suo stile e, infine, nella pletora di epigoni belli e brutti (a cominciare dal mediocre seguito 28 Settimane Dopo del 2007) che hanno frattanto infettato il cinema globale.

    Nominalmente vicino al filone moderno dello zombie movie (nel quale ha notoriamente fatto scuola), 28 Giorni Dopo era in realtà saldamente radicato nella linea nobile del cinema apocalittico inglese: non è arduo riconoscere, sotto gli espliciti rimandi a Romero e alla sua saga dei Morti Viventi, la continuità con un cinema che tra piccoli e grandi schermi aveva regalato, almeno da Quatermass in poi, gioielli come 2000: la Fine dell’Uomo di Cornel Wilde e l’imprescindibile Threads (1984) di Mick Jackson, vero araldo di un senso tutto britannico per la catastrofe e la maledizione di esservi superstiti; di tutti questi 28 Giorni Dopo aveva saputo elaborare il pessimismo, il gusto per il dramma, l’ostilità a qualsiasi compromesso della rappresentazione.

    Va da sé che era forte la voglia di acclamare 28 Anni Dopo come ritorno a un grande cinema di genere. Sulla carta c’era già tutto lo sperabile: il ritorno di Boyle alla regia, quello di Alex Garland (ormai grande firma a sé) alla sceneggiatura, la sperimentazione con la ripresa digitale. Per il terzo atto della saga, Boyle immagina un nuovo medioevo inglese, triviale quanto simbolico (Lindisfarne fu notoriamente prima vittima delle incursioni vichinghe), si arma di iPhone, droni e action cam e modella un mondo neo-primitivo mai troppo lontano dall’orizzonte iper-mediatico odierno. La gioia del filmare è autentica, la furia del montare è intatta; nei suoi momenti migliori, 28 Anni Dopo sa ancora restituire lo scabro fascino no-budget del suo modello, sa rievocarne la studiata ruvidezza delle forme, recupera la potenza di uno stile che sapeva costeggiare il documentarismo senza coincidervi; è poi senz’altro lodevole come Boyle non spinga la ripresa in iPhone a rivaleggiare con lo standard professionale, bensì ne esalti i limiti, le asperità di un’immagine ribelle al controllo.

    Disgraziatamente il problema è in tutto il resto. Bisogna essere disposti al più ottuso sofisma per rintracciare, in 28 Anni Dopo, una risposta estetica e tematica pregnante ai terrori del nostro tempo: poco da fare, la contiguità del film di Boyle con le ansie di oggi sembra esistere, più che nel film, in testa a chi ne scrive. Al meglio il lavoro si rende interessante per tutto quanto non sa dire, per il discorso sull’oggi di cui non trova gli estremi, per la maniera in cui le preoccupazioni moderne – dalla pandemia all’escalation militare e alla Brexit – affogano nella congerie di tropi comuni, nella rigidità stereotipica delle figure, nelle piccole e grandi forzature di una scrittura che non sa come muovere i personaggi nel senso necessario. Non è certo d’aiuto la rigida struttura bipartita del film – due atti tra un prologo e un epilogo in odore di post-credits – a fronte di un capostipite che sapeva esibire ben altra compattezza.

    A questo punto lo stile si fa maniera, la forma non sa darsi ordine (gli inserti digitali sono un pugno nell’occhio), la qualità tattile dell’immagine non fa che vestire a festa un umanesimo dozzinale. Contano i singoli momenti e le singole immagini, il cui simbolismo pure non ha profondità; contano la grana e i pixel, conta il furore della macchina a mano e del montaggio; contano gli inserti dai cinegiornali e dall’Enrico V di Laurence Olivier; conta l’angosciante cantilena di Boots, capolavoro di Kipling nell’eccezionale resa di Taylor Holmes;contano gli intenti e non i risultati, le ambizioni di un’opera che poteva e voleva incendiare il cinema serializzato d’oggi e non ha saputo farlo.

    Non saranno trascorsi ventotto anni, ma siamo più poveri di prima. Visto dal drone, il cinema è come l’Inghilterra di 28 Anni Dopo: terra di storie non-morte e di altre mai nate, palude di un immaginario che ha sbranato se stesso, avamposto che non sa più cosa sta proteggendo.

    Fabio Cassano

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  • Gianluca Rovinello – Tales Of Kalthura

    Gianluca Rovinello – Tales Of Kalthura

    Persia Egitto Francia Napoli. Ogni città e paese è un viaggio, pregno di colori e racconti millenari. Civiltà, mediterranee e sonore, millenni di suoni e luce. Tocchi di mano, e di cuore, e la nota si fa dolcezza, ma anche contaminazione: un circolo virtuoso, carico di soprese e di universi diversi e mescolati. Gianluca Rovinello, arpista elegante e maestro di virtuosismo, invita a scorgere i suoi linguaggi e a seguirlo nelle avventure nel bazar della sua anima, intrisa di tanti generi musicali, oltre la linea del mainstream, tra elettronica, classica e colonne sonore: tutto contenuto in una valigia magica che è l’essenza stessa dell’artista e della sua arte. Ecco che le note, che sono storie in forma emozionale narrate con un fine classicismo, virtuoso e incalzante, conducono a Kalthura, piccolo-grande luogo dell’anima, Samarcanda di suoni e avventure. Tales of Kalthura è il suo poema: diamo uno sguardo ai canti. Ampia e visionaria è Wooden Rock, che accoglie e pervade i sensi di un’elettronica sottile, calibrata tra finezza e scoperta, mai sbavata, ma spinta verso un compendio di ricerca. Le finezze del pentagramma lasciano spazio a un suono intenso e corposo, a tocchi che stringono e spingono. Paure miste a fantasia in Claustrofobia e Profondo Rosso, una regia ben definita tra cinema, immagine e sonoro, pensata per gli occhi e i disagi dell’anima. Fascinoso, caldo ed enigmatico è il trittico conclusivo, da The Unbeliever a Mother: sfocia in un’anima quasi progressive, che abbina e spinge, ma al contempo coglie il seme di un progetto quasi fuori dal tempo moderno, costruito – ideato -come un unicum musicale che promette rifugio dai deliri di un frenetico showbiz. Tales of Kalthura è un invito a scoprire se stessi, guardandosi da più angolazioni, a ri-scoprire le possibilità infinite della musica, un gioco di infiniti e meravigliosi intrecci e contaminazioni.

    Sergio Cimmino

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  • D’Avanzo: “Mondiale per club, benvenuti nel businessball”

    D’Avanzo: “Mondiale per club, benvenuti nel businessball”

    In esclusiva per il mensile “Il Cappuccino” analizziamo questo mese con  Katia D’Avanzo il torneo mondiale per club svoltosi negli Usa. Il nuovo format è stato fortemente voluto dal presidente della Fifa Gianni Infantino.

    Chi meglio di un volto noto al mensile come quello dell’Avvocato D’Avanzo, agente sportivo Fifa, potrebbe spiegare e riassumere ciò che è successo in questa prima edizione?

    Dottoressa D’Avanzo, vittoria meritata per il  Chelsea?

    Senza dubbio: il Chelsea ha trionfato contro tutto e tutti! E ha sconfitto il PSG, campione d’Europa, anche per merito del talento “Italia”. La squadra di Enzo Maresca ha giocato il miglior calcio del torneo: equilibrata, intensa, organizzata. Non si è affidata alle individua-lità, ma al collettivo. Ha battuto il Real Madrid in semifinale con personalità e poi il PSG in finale approfittando della stanchezza della squadra transalpina. Avviso all’Europa: tra i pretendenti alla vittoria in Champions ci sono anche i Blues! Maresca, reduce dagli allori di Conference League, ha vinto la scommessa giocata nel nome di tutti i tecnici giovani come lui: se un progetto credibile sopperisce all’esperienza, si può vincere. Il talento italiano nel calcio si riconferma quindi nel Mondiale per Club, segno che la tattica unita alla passione porta a risultati meravigliosi e inaspettati.

    Situazione delle squadre italiane: sembra che Juve e Inter abbiano considerato questo torneo una inutile appendice.

    Credo sia urgente che il calcio italiano si adegui al cambiamento per non restare indietro. In effetti le due partecipanti italiane, pur essendo uscite ai quarti, non hanno lasciato una grande impressione. La World Cup per club 2025 è stata visto da molti in Italia (giocatori non esclusi) come una forzatura, inserita in una stagione agonistica già saturissima. Ma non è solo questione di punti di vista: è un problema di cultura del futuro calcistico. Gli altri club corrono, investono, si innovano. Noi restiamo fermi, a corto di visione, criticando un mondo che corre e non aspetta chi non ha visione. Le squadre italiane continuano a ragionare a breve termine con strategie obsolete e infrastrutture datate. Ricordo che la prossima edizione del 2029 si giocherà in Brasile, mentre nel 2026 i mondiali si giocheranno negli Stati Uniti, Canada e Messico.

    Fifa e sponsor incuranti delle temperature elevate. Chi ci guadagna Federazione a parte?

    Dal punto di vista economico la FIFA ha costruito un evento pensato per i grandi sponsor, per i mercati emergenti, per espandere il marchio del calcio più che la sua qualità. E infatti chi ne beneficia sono le federazioni, i top club con reti globali e i marchi commerciali. Oltre alla FIFA ci guadagnano i grandi Club con struttura globale, come Chelsea, PSG, Real Madrid e restano fuori i campionati meno internazionalizzati, come la nostra Serie A.

    Cosa dovrebbe cambiare nel sistema?

    Guardiamo prima all’Italia: servirebbe innanzitutto una riforma strutturale del calcio italiano. Stadi nuovi, più investimenti nei settori giovanili, dirigenti con visione internazionale, tecnici valorizzati e progetti a lungo termine. Oggi il calcio Italiano sembra non reggere il ritmo del mercato globale. E ora allarghiamo lo sguardo all’universo mondo calcistico: penso che, sul piano globale, il calcio dovrebbe ritrovare un equilibrio tra spettacolo ed etica sportiva. Non si può continuare a comprimere spazi e tempi per creare eventi sempre più lunghi, e solo per aumentare ricavi. I giocatori non sono macchine e le stagioni da 11 mesi sono insostenibili. E’ indispensabile una calendarizzazione più razionale, con un limite massimo alle competizioni. Se il Mondiale per Club vuole davvero diventare un evento di riferimento, allora deve tornare a mettere al centro lo sport, non solo l’intrattenimento.

    Il Chelsea ha vinto con merito. Il torneo si è rivelato un successo globale, ma resta un interrogativo di fondo: è ancora calcio, o solo business? E per quanto riguarda lil nostro Paese? Potremmo dire che ha perso addirittura prima di entrare in campo. Ma il problema è forse un po’ più grave: probabilmente non è ancora neppure entrato nel nuovo secolo del calcio. L’Italia si desti, dunque, e al più presto.

    Stefano Marino

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  • Marco Massai, il giovane in giallo premiato a Cattolica

    Marco Massai, il giovane in giallo premiato a Cattolica

    Sabato 28 giugno, alla libreria Ubik di Cattolica, a quattro passi dal mare, si è tenuta la proclamazione del vincitore del Gran Giallo Città di Cattolica, blasonato concorso per giallisti ideato da Enzo Tortora nei primi anni ‘70. Fra i dieci finalisti, Marco Phillip Massai, autore ravennate nato a Columbus, Mississippi (suo padre era ufficiale pilota dell’Aeronautica militare) nel 1983. Marco, da tutti detto il giovane Massai, ha vinto la competizione anche se, pochi minuti prima dell’inizio della chiamata dei finalisti, aveva detto di non credere di aver vinto. La cerimonia si è articolata con la chiamata dei finalisti, uno a uno, dal decimo posto ai primi due, e hanno presenziato Franco Forte, Carlo Lucarelli, Piergiorgio Nicolazzini, Gabriella Genisi e Barbara Perna, membri della supergiuria che ha stabilito la graduatoria finale (mancavano all’appello Barbara Baraldi e Massimo Carlotto). Adesso, però, focalizziamoci su Marco, il giovane Massai.

    Marco, parlami del tuo percorso di scrittore, dagli esordi fino alla vittoria del Gran Giallo Città di Cattolica.

    È un viaggio partito da lontano: la scrittura è sempre stata parte della mia vita, prima da lettore poi da imitatore degli autori che leggevo. Il primo racconto scritto davvero “per gli altri” è del 2011: ero deciso a mettermi alla prova e ho partecipato alla selezione per una delle antologie 365 della Delos in cui ogni microracconto è per un giorno dell’anno. Andò bene, e così ho iniziato a frequentare forum, seguire corsi, workshop e scrivere racconti sempre più lunghi, fino a partecipare a selezioni e concorsi per pubblicare sul Giallo Mondadori. In appendice ai romanzi dei Grandi. Il primo racconto fu “Datteri, seta e polvere nera”, uscito nel 2012 insieme a un romanzo dello scrittore statunitense Rufus King. Poi ne sono seguiti altri, come la serie di racconti che hanno per protagonista Giaco da Pietrasanta, il pittore furfante e donnaiolo che quest’anno ha vinto a Cattolica. È stato un percorso lungo, con una pausa nel mezzo dato che per sette soffertissimi anni mi sono congelato e non ho scritto niente. Poi l’anno scorso è partito il microonde, così, apparentemente dal nulla, e al “DING” ho deciso di scrivere un nuovo racconto, per il Gran Giallo. Finale, secondo posto, e dentro di me è ripartito tutto: ho spazzolato via la ruggine e ho deciso di riprovare. Mi sono fatto aiutare da quel vecchio amico, Giaco, che sa farmi sentire a mio agio con la tastiera. 

    Come ti sei sentito quando hai vinto il Gran Giallo?

    Svuotato e felice. Perché svuotato? Ero un tantinino teso, pensa che il mio vicino di posto durante la premiazione a un certo punto mi ha messo una mano sul ginocchio e mi ha detto: “Non preoccuparti, sono medico, nel caso so fare la rianimazione”. Ci hanno fatto sudare, eh, chiamando i finalisti dal decimo al primo e tenendo sulle spine fino alla fine me e Dimitri Favre (che è arrivato secondo con un racconto spettacolare intitolato “Il giorno in cui la musica morì”). Poi appena ho vinto mi si sono accavallati i neuroni, non ricordo cosa mi abbiano chiesto né cosa ho risposto, pensavo solo: “Devo telefonare a Martino, devo dirlo a
    Martino”. Martino è mio figlio, ha quasi cinque anni ed è la vera ragione per cui ho ricominciato a scrivere e a sognare.


    Quali sono i tuoi progetti futuri?

    Eh, i progetti futuri. Negli anni ho accumulato nel cassetto una caterva di cartacce, bigliettini, idee, personaggi… e adesso li lascio uscire tutti. Il prossimo passo sarà un romanzo che ho scritto nel 2016, prima del “Congelatore”, ed è in calendario per fine anno nella collana Narrativa di Santelli Editore. Poi dovrebbe uscire, nel 2026, un fantasy per Acheron Books. Storie ambientate tutte nella mia Ravenna, qualche secolo fa. Poi chissà: ho tanti altri progetti in sviluppo, vedremo cosa piacerà agli editori e cosa invece resterà nel cassetto. L’importante credo sia non smettere mai di coltivare i propri sogni.

    Kenji Albani

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  • La guerra dei dodici giorni: dai bombardamenti israeliani al coinvolgimento americano

    La guerra dei dodici giorni: dai bombardamenti israeliani al coinvolgimento americano

    Mentre in Medio Oriente iniziano i flashbak dell’attacco preventivo di George W. Bush contro l’Iraq nel 2003 sembra che la guerra tra Israele e Iran sia già terminata. Martedì 24 giugno Donald Trump ha annunciato un cessate il fuoco tra Israele e Iran, ma i bombardamenti sono ripresi già nel pomeriggio. Il Tycoon stesso si è arrabbiato davanti alle telecamere, e ormai è diventato virale, dicendo: “Non sono felice con Israele” e poi ha continuato “non sono nemmeno felice con i leader iraniani, ma sono davvero scontento se Israele deciderà di colpire di nuovo”.
    Ha concluso l’intervista, dirigendosi verso il Marine One, affermando: “Abbiamo due stati che hanno combattuto così a lungo e così duramente che non sanno più cosa c*zzo stanno facendo”. Nonostante, la situazione sembra essere già tornata ad una pace, almeno temporanea, rimangono momenti di tensione, soprattutto per i paesi confinanti e quelli della Nato.
    In meno di quindici giorni abbiamo vissuto un pezzo di storia che lascerà l’amaro in bocca per molto tempo. Infatti, dall’inizio dei bombardamenti israeliani contro il territorio iraniano del 13 giugno con l’operazione “Rising Lion”, l’Iron Dome non ha mai smesso di funzionare. In effetti, Israele ha iniziato colpendo delle centrali nucleari e dei siti di arricchimento dell’uranio. Anche per questo, i politici iraniani volevano proporre una legge che permettesse al Paese di uscire dal trattato di non proliferazione delle armi atomiche, attualmente ancora in vigore.
    Tuttavia, il rapporto tra Teheran e il nucleare è complesso. Infatti, nel 2015 aveva firmato con i cinque vincitori della seconda guerra mondiale e la Germania un accordo sul nucleare (Jcpoa).
    Nello specifico, prevedeva la rimozione delle sanzioni per l’Iran in cambio di accedere liberamente alle strutture nucleari iraniane, anche disponendo delle telecamere fisse. Purtroppo però, nel 2018, durante il primo mandato di Trump, gli Usa hanno voluto stracciare il patto con Teheran reintroducendo le sanzioni. Per questo motivo, l’Iran ha iniziato a non rispettare più gli impegni presi con il Jcpoa, incrementando l’arricchimento di uranio e vietando l’accesso agli ispettori, aumentando così le tensioni.
    Il culmine si ebbe nel febbraio del 2021, quando Teheran annunciò la fine della collaborazione con l’Aiea, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che è un organo delle Nazioni Unite. La situazione è rimasta in stallo fino all’attacco israeliano quando, per via della crisi politica, gli ispettori della Aiea sono stati costretti ad abbandonare il loro ruolo di controllo sull’uranio arricchito, circa 409 chilogrammi, che era nel sito sotterraneo di Isfahan.
    In effetti, come riporta El País, secondo la Defence Intelligence Agency (DIA) il programma nucleare iraniano è stato poco danneggiato, arretrato al massimo di qualche mese. Di fatto, sembra che i componenti chiave per il piano nucleare, come le centrifughe, possano essere ricostruiti in poco tempo e che, soprattutto, l’Iran sia riuscito a spostare l’uranio arricchito prima dell’attacco in qualche struttura segreta.
    Nonostante l’attacco statunitense sia stato giustificato agli occhi dell’Occidente come l’unica soluzione per fermare la costruzione della bomba atomica iraniana, i politici sono stati smentiti dall’Aiea nel giro di poco tempo. Infatti, nonostante l’arricchimento dell’uranio abbia superato i limiti imposti dall’Agenzia stessa, Teheran è ancora distante da avere una bomba nucleare funzionante.

    Tuttavia, gli Stati Uniti sono voluti intervenire preventivamente. Nello specifico, 7 bombardieri B-2 americani hanno sganciato quattordici bombe anti-bunker da 14 tonnellate su due siti nucleariiraniani: Natanz e Fordow. Entrambe le strutture erano utilizzate per arricchire l’uranio ed entrambi erano nascosti in profondità, di fatto, Natanz è circa una ventina di metri sotto terra, mentre Fordow a ben 70-80 metri. Proprio per questo, rispettivamente sono state sganciate solo due bombe sul primo obiettivo e dodici sul secondo.
    Per questo tipo di operazione c’è solo una candidata: la GBU-57 A/B MOP. Infatti, grazie al suo peso e dalla quota di lancio, circa dodici chilometri d’altezza, si stima che riesca a penetrare circa 60 metri di terra o ben 18 di calcestruzzo armato. Proprio per il suo peso e le sue dimensioni, circa 6,5 metri di lunghezza, solo il B-2 Spirit è in grado di trasportarla e può trasportarne addirittura due. Inoltre, come se ciò non bastasse, grazie al rivestimento, che assorbe le onde radio, e alla sua forma è quasi impossibile da individuare finché non sgancia il carico bellico.
    L’operazione, almeno inizialmente, sembrava essere partita dalla base Diego Garcia, nell’oceano indiano, ma sembra che in realtà il decollo è avvenuto nella base Whiteman Air inMissouri. Nonostante le dichiarazioni di Trump sul successo dell’operazione, che secondo il Presidente avrebbero causato danni ingenti, non si sa ancora se sia effettivamente così. Infatti, dalle immagini satellitari si possono vedere i fori di entrata, ma neanche l’Aiea può raggiungere il sito per controllare la struttura sotterranea. La missione, almeno nella terra delle stelle e strisce, è stata accolta con due reazioni contrastanti: o è considerata un successo della potenza bellica statunitense o come un attacco alla democrazia americana per non aver avvisato in anticipo il Congresso, come lo stesso Bernie Sanders accusa. Fatto sta che anche lo stesso Segretario Generale della Nato, Mark Rutte, nato in Olanda, ha espresso il suo parere sull’operazione Usa definente il Tycoon come “uomo di forza e di pace” e che non abbia violato il diritto internazionale. Tuttavia, mentre il diritto interno degli Stati Uniti è più “elastico”, vedendo anche le operazioni condotte dai predecessori di Donald Trump, sul diritto internazionale non ci sono dubbi. Di fatto, l’articolo due, comma 4, della Carta delle Nazioni Unite riporta chiaramente: “Tutti i Membri devono astenersi, nelle loro relazioni internazionali, dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, o in qualsiasi altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Ma, purtroppo come penso sia chiaro a tutti, in molte occasioni sono rimaste soltanto delle parole sulla carta, giustificando le violazioni con la cosiddetta difesa preventiva, prima tra tutte l’invasione dell’Iraq da parte di George W. Bush.

    Matteo Boschetti

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  • Pagine di un diario e di un dialogo immaginario, con lui, Francis Bacon

    Pagine di un diario e di un dialogo immaginario, con lui, Francis Bacon

    L’ho visto. È lui.
    È, lui? – mi chiedo.
    Sì. È lui.
    Im-perfetto come la natura. Perfetto come la sua A R T E.
    Francis Bacon.
    Se sapesse che sento le sue urla – penso.
    Mi avvicino, lo guardo, non gli dico niente.
    Lui non mi guarda.
    Gli sono accanto, ora.
    Guardo un punto fisso davanti a me, e sorrido. Inizio a parlare. Lui capisce che voglio parlargli. Continua a bere in quel sottofondo di oranghesca curiosità che chiunque riserva per lui, me compresa.
    L’aria attorno a noi è densa. Lui, è Francis Bacon. Io, donna di Bacon.
    Apro le mani davanti a me.
    Le dita aperte, distanti le une dalle altre, le unghie rosse, la pelle pallida bianca tirata.
    Come suonassi un pianoforte spingo nell’aria un dito e poi un altro e un altro ancora, dicendo:

    dolore
    esistenza umana
    sofferenza
    spietatezza
    corpi
    corpi umani
    come ANIMà–LI

    (scandisco bene e A/lungo il suono: ANIMALI), per tre volte.

    Poi, insieme, con tutte le dita, suono su tutti i tasti sotto la mia immaginazione, e dico: entra dentro sino a penetrare la carne, fino alle ossa.
    Mi giro verso di lui, lo guardo e lui mi guarda, sorridiamo senza sorridere, le nostre bocche ferme, le lingue sussurrano: CARCASSA.
    Senza dubbio noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio, mi stupisco sempre del fatto di non trovarmi lì, al posto dell’animale.
    Perché ne sei ossessionato? – gli chiedo.

    Anche io sono ossessio-nata. Anzi, credo di essere nata da quell’ossessione lì.

    Per me l’arte è un’ossessione e, poiché noi siamo esseri umani, siamo noi i soggetti della nostra ossessione. (…) Quello che voglio è distorcere la cosa ben al di là dell’apparenza, ma nella distorsione, ricondurla ad essere testimonianza dell’apparenza.

    Le tue tele, soffrono – gli chiedo, quando sentono quelle urla e il corpo deformarsi?
    Mi guarda. Curioso o infastidito. Fa un cenno verso di me, come due estranei pronti a scambiarsi una stretta di mano… ma noi … no. Noi non ci tocchiamo.
    Vorrei dirgli che è inutile farlo. Ma riesco solo a dirgli: quella che presento non sono mai io.
    Segue una pausa breve.
    E un cenno con le labbra come se la parola volesse uscire ma anche lei, resta lì, anche leicarcassa.
    La mia carta soffre, gli dico.
    Lo guardo bene in faccia.
    La sua faccia è strana. Struggente, un po’ affranta – forse, i suoi lineamenti sono leggermente asimmetrici: gli occhi, a guardarli bene, sono molto diversi tra loro.
    Il suo sguardo è profondamente spietato. Con chiunque.
    Quanto pesa il tuo urlo? – gli chiedo.
    Anche i tuoi corpi vengono de-formati, mutilati, lacerati dal loro stesso urlo, come il mio?
    Faccio domande. Solo domande. Lui non risponde.
    Inizio a parlare. Lui mi guarda.
    Mi lascia congelare come i suoi corpi dipinti e lasciati soli dentro il vuoto di quelle forme nude. Arditamente geometriche. Quasi cadute in un bilico più profondo di un precipiz-io.
    Più scuro di un abisso.
    Anche le mie urla sono esauste.

    io
    mangiata da Dio
    sono fuggita

    vestita di carne
    tenendo stretto
    il mio urlo nella bocca

    e
    ho conservato me
    dentro

    la colonna bianca e schiumosa

    che mi regge
    vivo

    secondo la tradizione dei miei giorni

    vivo

    con tutto ciò che è in me

    Lui non risponde.

    Allora, io continuo. A bassa voce:

    sono dentro l’urlo
    getto il suo sguardo
    sino a squarciare
    il giardino di me stessa
    divento
    una donna
    di Bacon
    mi contorco
    come un fiore

    nato da una natura imperfetta

    E, allora, sorride. Piano.
    Beve. Guarda davanti a lui e io guardo il vuoto dal quale trae le sue parole:
    Voglio fare quello che diceva Valéry: dare una sensazione ma non la noia di comunicarla.
    Poi, parliamo insieme, uno sopra l’altra.
    Le nostre voci si mescolano si fondono si dipingono insieme e poi entrano sotto dentro lo stesso conficcarsi nel brusio continuo che c’è intorno a noi in quella sala che è tutta lì, per lui, per la sua presentazione.
    E allora quei corpi piccoli grandi urlanti di sessi diversi diventano i suoi quadri e le mie poesie e tutto insieme un’esistenza feroce, una fauna selvatica ed elegante ma urlante come bestiame, umano. Umano bestiame.

    Lui parla ma non riesco a sentirlo più.
    E allora la mia voce si alza per andare da lui, per chiedergli q u a n t o quegli URLI facciano male ai suoi corpi.
    Mi sento unta dalla sua grandezza.

    Tu, chi sei? Mi chiede.

    Bevo, anche io. E gli rispondo, così:
    partorisco tuoni dall’altro mondo
    divento bestia con tre teste

    e

    una di queste teste
    s’agita di continuo
    mentre vede i suoi giorni

    finire
    in un macello
    sono quella bestia
    sono donna fragile e dura
    sorella docile
    figlia irresponsabile

    sono grembo
    utero
    mani
    sono occhi
    cuore
    sono pensiero

    utopia
    sogno
    incubo
    sono

    turbamento inconscio

    e

    non sono mai come mi vedono gli altri

    Ma lui non mi sente dentro quel macello vivo. Di carcasse.

    Dopo le mie confessioni che non sentì mai Bacon restò in silenzio.

    [Io]
    sono dentro l’urlo
    getto il suo sguardo
    sino a squarciare
    il giardino di me stessa
    divento io
    donna
    di Bacon

    Claudia Dell’Era

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  • La Trama Fenicia

    La Trama Fenicia

    Lo spregiudicato affarista e mercante d’armi Zsa Zsa Korda (Benicio Del Toro) sopravvive all’ennesimo attentato. Afflitto dai rimorsi di coscienza, convince la figlia Liesl (Mia Threapleton), educata dalle suore e in procinto di diventarlo, a unirsi a un suo rischioso piano infrastrutturale per risollevare la Fenicia, un fittizio paese del Medio Oriente. Tra le sordide manovre dei governi, l’ostilità degli investitori e le macchinazioni di terroristi internazionali, la missione metterà a dura prova il rapporto tra Korda e la figlia ritrovata.

    Quand’è che un autore diventa la parodia di se stesso? Forse quando non ha più nulla da insegnare, quando non sa più sorprendere, quando la lezione gli è sfuggita di mano e chiunque, bravo o meno, ne fa ormai quel che vuole. Tale è la sorte che pare essere toccata a Wes Anderson, da tempo consacrato a maestro moderno del cinema. Non si pretende che un regista cambi o venga meno al suo stile, ma il rischio di musealizzarsi da sé è sempre dietro l’angolo: lo aveva capito pure Edgar Wright (regista non meno ossessivo di Anderson), che con Ultima Notte a Soho aveva preferito alienarsi la folla.

    L’inventario del cinema di Anderson c’è proprio tutto: famiglie disfunzionali, paesaggi-cartolina, la scrittura asciutta e flemmatica delle opere migliori; la misura è quella solita, la cifra di un’amatorialità fattasi cristallino virtuosismo tecnico; lo stile è quello del miglior elzeviro filmico, citazionista, decorativo, europeo come solo un texano sa essere. Eppure manca qualcosa, un vuoto enorme sembra giacere al fondo de La Trama Fenicia.

    Nel mezzo secolo che separa quest’ultima fatica da I Tenenbaum, sono accadute parecchie cose: lodi ormai d’ufficio, moderato e costante successo di cassetta, una nicchia nell’olimpo dei grandi pazientemente incisa nell’immaginario cinefilo.

    Nel frattempo lo stile si è fatto stilema, da forma significante è diventata filtro, forma memica da appiccicare un po’ su tutto: non per niente Anderson è forse il regista più imitato sulla Rete, dai tik-toker all’intelligenza artificiale (a cui certo le tante camere fisse hanno reso il gioco più facile). Il carrozzone del successo ha sempre trovato qualche buca, nel dibattito continuo e infruttuoso tra forma e sostanza – come se in Anderson la prima non fosse sempre stata la qualità più autentica e vibrante della seconda.

    Non che La Trama Fenicia non sia buon intrattenimento: il caleidoscopio delle invenzioni non scorda i trucchi di repertorio, la scrittura spinge a passo spedito una narrazione così tortuosa da farsi tappeto, rumore di fondo da accompagnare lo spettacolo, ossia quel che costituisce in Anderson il vero piacere della visione. A mancare è qualsivoglia senso profondo, qualsiasi cosa che vada al di là di verità rassicuranti. La smania classificatrice di Anderson è immutata, ma alla sua Wunderkammer manca il difforme, l’inclassificabile, la gioia del caos e la sua sofferenza.

    D’altra parte Anderson sembrava aver già toccato il suo punto di non ritorno: il precedente Asteroid City aveva in fondo l’eloquio, se non proprio l’incedere, di un manifesto programmatico; una di quelle opere che compendiano il bene e il male di un regista ancora con delle ossessioni: il non saper stare al mondo, il doverci essere per chi invece se ne va, il sogno e l’ignoto come grande abbraccio in cui dimenticare – almeno per un attimo – le angosce dell’arrancare umano. Dopo la grande abbuffata retro-futurista, Anderson sembrava proprio aver detto tutto.

    Sparita l’ossessione, ne La Trama Fenicia rimane il mestiere, la macchineria che piace ai soliti, il balocco di un cinema rigorosamente da divano: confortante, nostalgico, cinefilo senza irruenza, ben attento a restare al di qua di qualsivoglia uscio del perturbante. Il meccanismo è da mastro orologiaio, la corsa filmica è a perdifiato, tutto scorre piacevole con la certezza di non lasciare alcun ricordo, alcuna impronta emotiva nello spettatore. Gli attori stanno in riga, comodamente noiosi ciascuno nel suo stereotipo; chi non ne ha uno, come Mia Threapleton, imita chi l’ha preceduta.

    Bisogna farsene una ragione: questo è il medesimo Anderson che in Moonrise Kingdom non resisteva a un consolatorio lieto fine (che demoliva tutto quanto la prima ora aveva costruito); lo stesso che in calce a Grand Budapest Hotel aveva la faccia tosta di tributare Stefan Zweig, ma che dell’autore di Paura e de La novella degli scacchi pareva non ricordare nulla – meno che mai l’angoscia; lo stesso per cui tutto ne La Trama Fenicia, dalla speculazione finanziaria alla guerriglia militante, diventa mero oggetto di décor.

    Sarebbe perfino tollerabile, se la furia sanificatrice di Anderson non si riversasse sul cinema che ama: da Renoir ad Antonioni, al ciclopico Orson Welles di Rapporto confidenziale, tutto ciò che si ricordava tormentoso, vitale, personale, si riduce alla cartolina di un cinema che non abita più da queste parti. Non vi è omaggio che non si traduca in immagine innocua, rassicurante: perfino il calco finale da Va’ e vedi – il lancinante capolavoro antibellico di Elem Klimov – si riduce a graziosa nota di stile.

    Non cambierà probabilmente nulla per Wes Anderson e il suo piccolo mondo, il quale comprende senz’altro i suoi estimatori: a questi La Trama Fenicia sa dare esattamente quel che si vuole, senza che ci si aspetti sorprese. Non si può costringere un autore a cambiare, a costo che questi perda la sua firma: quella ormai appartiene al mondo e alle sue mode, quel mondo vero, chiassoso e palpitante, che da questo cinema non è mai parso così lontano. Rifugio, preservazione, stagnazione, ognuno scelga il termine che più gli aggrada.

    Anderson sembra aver scelto il suo veleno: che non gli faccia troppo male, e tanti saluti dalla Fenicia.

    Fabio Cassano

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