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La Trama Fenicia

Lo spregiudicato affarista e mercante d’armi Zsa Zsa Korda (Benicio Del Toro) sopravvive all’ennesimo attentato. Afflitto dai rimorsi di coscienza, convince la figlia Liesl (Mia Threapleton), educata dalle suore e in procinto di diventarlo, a unirsi a un suo rischioso piano infrastrutturale per risollevare la Fenicia, un fittizio paese del Medio Oriente. Tra le sordide manovre dei governi, l’ostilità degli investitori e le macchinazioni di terroristi internazionali, la missione metterà a dura prova il rapporto tra Korda e la figlia ritrovata.

Quand’è che un autore diventa la parodia di se stesso? Forse quando non ha più nulla da insegnare, quando non sa più sorprendere, quando la lezione gli è sfuggita di mano e chiunque, bravo o meno, ne fa ormai quel che vuole. Tale è la sorte che pare essere toccata a Wes Anderson, da tempo consacrato a maestro moderno del cinema. Non si pretende che un regista cambi o venga meno al suo stile, ma il rischio di musealizzarsi da sé è sempre dietro l’angolo: lo aveva capito pure Edgar Wright (regista non meno ossessivo di Anderson), che con Ultima Notte a Soho aveva preferito alienarsi la folla.

L’inventario del cinema di Anderson c’è proprio tutto: famiglie disfunzionali, paesaggi-cartolina, la scrittura asciutta e flemmatica delle opere migliori; la misura è quella solita, la cifra di un’amatorialità fattasi cristallino virtuosismo tecnico; lo stile è quello del miglior elzeviro filmico, citazionista, decorativo, europeo come solo un texano sa essere. Eppure manca qualcosa, un vuoto enorme sembra giacere al fondo de La Trama Fenicia.

Nel mezzo secolo che separa quest’ultima fatica da I Tenenbaum, sono accadute parecchie cose: lodi ormai d’ufficio, moderato e costante successo di cassetta, una nicchia nell’olimpo dei grandi pazientemente incisa nell’immaginario cinefilo.

Nel frattempo lo stile si è fatto stilema, da forma significante è diventata filtro, forma memica da appiccicare un po’ su tutto: non per niente Anderson è forse il regista più imitato sulla Rete, dai tik-toker all’intelligenza artificiale (a cui certo le tante camere fisse hanno reso il gioco più facile). Il carrozzone del successo ha sempre trovato qualche buca, nel dibattito continuo e infruttuoso tra forma e sostanza – come se in Anderson la prima non fosse sempre stata la qualità più autentica e vibrante della seconda.

Non che La Trama Fenicia non sia buon intrattenimento: il caleidoscopio delle invenzioni non scorda i trucchi di repertorio, la scrittura spinge a passo spedito una narrazione così tortuosa da farsi tappeto, rumore di fondo da accompagnare lo spettacolo, ossia quel che costituisce in Anderson il vero piacere della visione. A mancare è qualsivoglia senso profondo, qualsiasi cosa che vada al di là di verità rassicuranti. La smania classificatrice di Anderson è immutata, ma alla sua Wunderkammer manca il difforme, l’inclassificabile, la gioia del caos e la sua sofferenza.

D’altra parte Anderson sembrava aver già toccato il suo punto di non ritorno: il precedente Asteroid City aveva in fondo l’eloquio, se non proprio l’incedere, di un manifesto programmatico; una di quelle opere che compendiano il bene e il male di un regista ancora con delle ossessioni: il non saper stare al mondo, il doverci essere per chi invece se ne va, il sogno e l’ignoto come grande abbraccio in cui dimenticare – almeno per un attimo – le angosce dell’arrancare umano. Dopo la grande abbuffata retro-futurista, Anderson sembrava proprio aver detto tutto.

Sparita l’ossessione, ne La Trama Fenicia rimane il mestiere, la macchineria che piace ai soliti, il balocco di un cinema rigorosamente da divano: confortante, nostalgico, cinefilo senza irruenza, ben attento a restare al di qua di qualsivoglia uscio del perturbante. Il meccanismo è da mastro orologiaio, la corsa filmica è a perdifiato, tutto scorre piacevole con la certezza di non lasciare alcun ricordo, alcuna impronta emotiva nello spettatore. Gli attori stanno in riga, comodamente noiosi ciascuno nel suo stereotipo; chi non ne ha uno, come Mia Threapleton, imita chi l’ha preceduta.

Bisogna farsene una ragione: questo è il medesimo Anderson che in Moonrise Kingdom non resisteva a un consolatorio lieto fine (che demoliva tutto quanto la prima ora aveva costruito); lo stesso che in calce a Grand Budapest Hotel aveva la faccia tosta di tributare Stefan Zweig, ma che dell’autore di Paura e de La novella degli scacchi pareva non ricordare nulla – meno che mai l’angoscia; lo stesso per cui tutto ne La Trama Fenicia, dalla speculazione finanziaria alla guerriglia militante, diventa mero oggetto di décor.

Sarebbe perfino tollerabile, se la furia sanificatrice di Anderson non si riversasse sul cinema che ama: da Renoir ad Antonioni, al ciclopico Orson Welles di Rapporto confidenziale, tutto ciò che si ricordava tormentoso, vitale, personale, si riduce alla cartolina di un cinema che non abita più da queste parti. Non vi è omaggio che non si traduca in immagine innocua, rassicurante: perfino il calco finale da Va’ e vedi – il lancinante capolavoro antibellico di Elem Klimov – si riduce a graziosa nota di stile.

Non cambierà probabilmente nulla per Wes Anderson e il suo piccolo mondo, il quale comprende senz’altro i suoi estimatori: a questi La Trama Fenicia sa dare esattamente quel che si vuole, senza che ci si aspetti sorprese. Non si può costringere un autore a cambiare, a costo che questi perda la sua firma: quella ormai appartiene al mondo e alle sue mode, quel mondo vero, chiassoso e palpitante, che da questo cinema non è mai parso così lontano. Rifugio, preservazione, stagnazione, ognuno scelga il termine che più gli aggrada.

Anderson sembra aver scelto il suo veleno: che non gli faccia troppo male, e tanti saluti dalla Fenicia.

Fabio Cassano

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