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A qualcuno piace Lemmon

Non c’è bisogno di particolari ricorrenze per apprezzare l’eredità artistica di Jack Lemmon. Un talento come quello di un artista che ha così impreziosito oltre mezzo secolo di cinema non è da commemorarsi né da celebrarsi di circostanza: è piuttosto da vivere un film per volta, lasciandosi trascinare dall’inestinguibile vigore di un attore che è autore vero. Lemmon appartiene alla miglior tradizione dei tanto vituperati face-makers, quelli che da Peter Lorre a Willem Dafoe e Jim Carrey costituiscono da sempre la carta matta del gioco attoriale.

Pochi, pochissimi come Jack Lemmon hanno saputo mescolare così sapientemente, con tanta istintuale saggezza del corpo, i tratti della commedia e del dramma, entro un movimento magmatico in cui un estremo ne chiama l’altro senza requie.

Si può senz’altro dire che Lemmon ha saputo rivelare come nessun altro la fisionomia dell’homo nevroticus, l’uomo da poco o niente nella giungla dell’umano arrabattarsI; Una qualità di giocare a nervi scoperti senza cui L’Appartamento – del pur maestro Billy Wilder – non sarebbe forse il capolavoro che è. Lemmon si aggira stranito, disperato, pieno di tic e magre speranze, in un’opprimente distopia moderna tra Kafka e Jacques Tati; il suo Baxter vive per lavorare e lavora per vivacchiare, presta il suo appartamento agli adulteri dei piani superiori; spera che tanta meschinità possa renderlo un giorno felice. A salvarlo è una ragazza sull’orlo del baratro (una splendida Shirley McLaine), e il rispetto di sé che non sapeva di avere.

Lo stesso amor proprio è il sacro Graal di un altro capolavoro, I Giorni del Vino e delle Rose: Blake Edwards, una volta tanto lontano dalla commedia, è in stato di grazia creativa; Lemmon e Lee Remick reggono il film con un duetto che è purissimo dramma, di una verità troppo autentica per non far male. Joe e Kirsten sognano l’amore vero, ma non hanno fatto i conti col più crudele dei demoni: quello nella bottiglia.

È anche nella struggente, febbrile prestazione dei due che l’opera di mastro Edwards è il degno erede di Giorni Perduti, il film con cui Wilder (e chi altri?) aveva narrato come nessun altro prima l’incubo dell’alcolismo. Certo vi è del vero: anni dopo, Lemmon ammetterà il disastro che l’alcool stava facendo della sua vita, e andrà anche lui come Joe a disintossicarsi.

È ancora Wilder a fare di Lemmon il suo paladino: A qualcuno piace caldo è un formidabile viaggio nella trasgressione, un caleidoscopio che il duo Lemmon/Tony Curtis regge battuta su battuta. Wilder è un tiranno, ma uno come Lemmon non lo si può contenere: lo lascia fare, e meno male, giacché la sua interpretazione en travesti è una delle cose per cui benedire i Lumière; l’energia è incontenibile, l’immersione è totale, la faccia di gomma dell’attore colpisce forte quanto le mitragliate nel finale. Non sarà l’ultimo duetto con Curtis (seguirà l’epopea farsesca La Grande Corsa, ancora sotto la frusta di Edwards), né con Wilder: da Irma la Dolce (ancora con McLaine) a Prima Pagina, se ne vedranno delle belle; compreso l’incontro con Walter Matthau, per uno dei migliori sodalizi che si possano chiedere al cinema. Non per niente sarà proprio Matthau al centro di Kotch (in Italia Vedovo aitante, bisognoso affetto offresi anche babysitter), prima e unica regia di Lemmon.

Una vita gregaria, quella dell’artista Lemmon: sempre una stella, ma mai timorosa della luce altrui. Lo sanno bene i tanti registi con cui ha lavorato: da Robert Altman a Stuart Rosenberg, ad Arthur Hiller che in Un provinciale a New York ne fa l’incarnazione della nevrosi moderna.

E lo sanno bene anche gli attori; come Mastroianni, con cui Lemmon duetta nel tenerissimo – seppure imperfetto – Maccheroni di Ettore Scola. Dei due, Mastroianni è il napoletano vero: poetico, scaltro, popolare e signorile, vitale e dolente come chi sorride all’ombra del vulcano; Lemmon è il disilluso tycoon d’oltreoceano, perso nella città vista solo in guerra tanti anni prima. Lemmon e Mastroianni si stuzzicano, si rispecchiano, le loro umanità sanguinano una nell’altra; Scola li asseconda, cuce il film intorno alla filmografia passata dell’attore (le citazioni si sprecano) e fa di Napoli lo scenario mistico di un’irresistibile favola dell’amicizia. Sconfinata è la dolcezza del Jack Lemmon senile: nessuno sa guardare nel vuoto come lui e far riverberare, nello sguardo ancora vivido, tutta una vita di dolori e piccole gioie.

I giorni del vino e delle rose saranno anche brevi, ma basta rivedere quel volto per ricordarli, e sorridere.

Fabio Cassano

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