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    Eddington

    Eddington, New Mexico, Maggio 2020. Nel pieno della pandemia di Covid-19, lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) è in rotta col sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal) per le misure di distanziamento sociale da lui introdotte, nonché per le concessioni a un conglomerato che ha scelto la cittadina quale sede per il suo nuovo data center. La decisione di Joe di candidarsi a sindaco è solo l’inizio di una spirale di violenza e isteria che avviluppa la comunità di Eddington.

    Benvenuti nel deserto del reale.

    Jean Baudrillard

    Uno strano e originale percorso ha dettato e guida tuttora l’evoluzione registica di Ari Aster: inizialmente affermatosi, come i colleghi Robert Eggers e Oz Perkins, nell’alveo della rinascita folk horror, il regista di Hereditary (2018) e Midsommar (2019) ha saputo scartare a lato, enfatizzando lo psicologismo e il realismo magico della sua scrittura filmica entro una forma nuova e trasversale del suo cinema. Già il divisivo Beau ha paura (2023) era in tal senso un’inclassificabile mistione di horror, dramma surrealista e fantasia kafkiana, sovente trainato più dal gusto per la divagazione e la fantasticheria che dalle necessità del racconto tradizionale. Ciò non compensa, semmai moltiplica, la sorpresa di chi assiste a Eddington, opera con la quale il regista più “europeo” (per suggestioni e approcci) della nuova generazione affronta la materia più americana che ci sia, allontanandosi ancor più dall’orrore all’atto di imbastire un bizzarro western contemporaneo.

    Dunque il western, ma come? Quale collegamento può mai esservi tra l’espansione americana a Ovest e il collasso economico, sociale e umano della pandemia che ci ha tenuti chiusi in casa tanto a lungo? Va premesso: onore ad Aster per aver preso la questione di petto, entro un cinema ancora restio ad affrontare un evento situato scomodamente sulla soglia tra cronaca e storia.

    Che sia proprio questa la chiave? In fondo la pandemia non ha fatto (salvo naturalmente i milioni di morti) che ridefinire leggi e consuetudini, tribalizzare il tessuto sociale, creare frontiere nuove sul cui limite ri-mappare un territorio umano riscopertosi selvaggio; la lotta tra il vecchio e il nuovo – sia questo la ferrovia, il distanziamento sociale o l’avanzata delle Big Tech – è sempre stata il centro febbricitante di un genere che oppone leggi centrali e periferiche, la giustizia istituzionale e l’eterno medioevo interiore. Roba che sa davvero aggiungere il folk all’orrore, che sa riscoprire, a favore di occhi nuovi, la più banale comunità di provincia quasi fosse uno strano culto silvano.

    Eddington riesce a modellarsi quale straordinaria summa di cinque anni di isteria: teorie del complotto, paranoia diffusa, la sfiducia verso un governare sempre più lontano da masse abbrutite, incattivite, pronte a farsi massa critica di nuovi autoritarismi. C’è un po’ di tutto, dal coronavirus alla morte di George Floyd, da Black Lives Matter al traffico di minori, all’ineludibile confronto con un convitato non già di pietra, bensì di silicio, messaggero di un futuro che vende promesse di ordine, trasparenza, progresso.

    Aster è clinico e insieme empatico, non demonizza né giustifica: entomologico e sardonico, il suo occhio registico percorre in lunghi piani-sequenza un habitat depauperato e lo seziona una casa, un ufficio, un supermercato per volta. La forma filmica è limpida come in Midsommar, lo stile è austero e tuttavia arioso: luce diffusa, camere fisse, pochi e significativi primi piani. Su tutto l’ironia, i violenti contrasti tonali, la dissonanza: Cross e Garcia faccia a faccia come in un film di Leone, mentre una canzonaccia di Katy Perry sfonda il silenzio del deserto oltre il recinto. Violenza fredda, non clinica ma spassionata, comprimari distaccati e cavillosi, dialoghi da ginnastica mentale mal praticata.

    Non tutto funziona alla perfezione: a volte Aster coreografa il caos con troppa nettezza, riprende una rissa come uno scontro di pupazzi in mano a un bambino; a volte il budget stringe, la relativa pochezza dei mezzi non rende sempre giustizia a un’immagine che vorrebbe incarnare il caos e deve accontentarsi di un picchetto. Pazienza: ogni volta che può il regista si chiude in casa coi suoi attori, fa implodere la guerra nel microcosmo domestico, trattiene il piano della ripresa sulla sfumatura d’ambiente, sulla recitazione che qui tocca apici assoluti. Merito anche di Joaquin Phoenix, della sua dedizione assoluta al vestire i panni di uno sceriffo conservatore, un inadeguato con pistola al fianco; un personaggio il quale, nonostante incarni tutto quel che temiamo di diventare, quasi farebbe simpatia. Intorno a lui Emma Stone, Deirdre O’Connell, un inquietante e messianico Austin Butler, infondono vita, complessità e colore a un ritratto di umanità alla deriva sull’orlo della caricatura.

    Quello di Aster è un cinema in tutto e per tutto apocalittico: non solo apocalisse come fine, ma come rivelazione e residuo; l’Apocalisse, dice Deleuze, è il libro di chi si crede superstite. Ne è prova la guerra che atterra su Eddington via drone; impossibile imporre ordine al caos, suturare la ferita su cui la collettività nuova, arrabbiata e disillusa, crescerà se stessa. Il tocco di classe è l’aftermath: l’umanità è storpia e senza voce, chi prometteva guerra al sistema si è venduto; il nuovo avanza e gli avanzi stanno a guardare. Lontano, nel buio di un deserto lunare, qualcuno non ha smesso le armi, sperando nella prossima apocalisse.

    Fabio Cassano

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  • Maurizio Nichetti: i segreti di “Quo Vadiz?”

    Maurizio Nichetti: i segreti di “Quo Vadiz?”

    Perché ci sono i Gatti di vicolo Miracoli al posto di Marco Vinicio? E perché ci sono le torte in faccia invece delle persecuzioni anti-cristiane? E per quale motivo non c’è più l’incendio di Roma ma le dissertazioni nichettiane sulla possibile natura aliena della donna? Si tratta forse di un Quo Vadis? di un mondo parallelo e alternativo? In un certo senso sì, considerando che  stiamo parlando di Quo Vadiz?, il Sienkiewicz (o, se si vuole, il LeRoy) riveduto e corretto alla maniera di Maurizio Nichetti. Con la collaborazione di Don Lurio e Sydne Rome. Dopo quarant’anni, un altro classico da riscoprire almeno quanto quello dello scrittore polacco o del regista statunitense.

    Maurizio Nichetti,  Quo Vadiz? è stato definito un varietà kolossal (in questi termini se ne parla anche su Wikipedia). Che significa precisamente? 

    Il termine Kolossal dipende, probabilmente, dall’ambientazione peplum con una pre-sigla che ammiccava ai classici del genere sin dall’epoca del muto.  

    Se dico Gladiators non penso a reziari e mirmilloni, ma alla band al cui nome è legato un brano di apertura che rientra pienamente nel filone del pop anglo-italiano degli anni ’80 (sembra Tarzan Boy riambientato nell’antica Roma). Il testo è un misto di inglese e latino: lei partecipò in qualche misura alla sua genesi? Ci può parlare di come nacque quella sigla?  

    La sigla è stata prodotta da Freddy Naggiar e dalla sua Baby record ed era stata commissionata da me che partivo dalla frase: Verba volant Video manent tonight.  Mi piaceva l’idea di una sigla con un testo in latino.  Il concetto poi, anticipava il crollo della lettura e l’avvento dell’immagine che avremmo affrontato dal 2000 in poi con l’esplosione del digitale e dei social.  Nel 1984, anno di “Quo Vadiz?”, tutto questo non si sapeva ancora… ma si poteva cominciare ad immaginarlo come un futuro molto ravvicinato. 
    https://www.youtube.com/embed/T7inTvwngvg?version=3&rel=1&showsearch=0&showinfo=1&iv_load_policy=1&fs=1&hl=it&autohide=2&wmode=transparent

    Che tipo di “celebrazione della romanità” è Quo Vadiz?, se di celebrazione della romanità si può parlare? 

    In realtà era una trasmissione che si ispirava piuttosto a “Hellzapoppin”, un film   del 1941 di Henry C. Potter . L’ambientazione era l’antica Roma, ma il susseguirsi degli avvenimenti seguiva  la follia di quel film.

    Quo Vadiz? andò in oda su Retequattro dall’ottobre 1984 al gennaio 1985: è un caso che, appena un mese dopo, in sorprendente continuità, su Raiuno sia iniziata la trasmissione della serie televisiva Quo Vadis?  con Klaus Maria Brandauer e Max Von Sydow? 

    Bisognerebbe chiederlo ai programmatori RAI ….  forse l’avevano utilizzata come un’astuta (?) controprogrammazione.  All’epoca i canali si combattevano tra loro anche così, non erano ancora tempi di Netflix o DAZN.

    Gianluca Vivacqua

  • Israele-Hamas, fragile tregua: quale futuro per la Palestina?

    Israele-Hamas, fragile tregua: quale futuro per la Palestina?

    Con l’accordo del 10 ottobre 2025, firmato nella notte tra l’8 e il 9 ottobre, la Palestina dovrebbe vivere un periodo di pace, o almeno di tregua, ma non sembra essere così. Infatti, nonostante il cessate il fuoco sembra che entrambe le parti stiano violando gli accordi presi in precedenza. In particolare, Hamas sta accusando Israele di non aver riaperto il valico di Rafah per non lasciar passare gli aiuti umanitari. Inoltre, lo stato ebraico ha anche portato a segno più di un bombardamento nella Striscia di Gaza da quando è stata firmata la tregua. Nello specifico, nella giornata di domenica 19 ottobre, dei raid aerei hanno colpito Rafah e Nuseirat, mentre la notte di mercoledì 22 è stata colpita Deir al-Balah, nella quale Emergency ha riportato che sono morti diversi civili.

    Tuttavia, Israele ha giustificato gli attacchi sostenendo che i primi a violare l’accordo sono stati i palestinesi, in particolare, perché non hanno ancora rilasciato tutti gli ostaggi. Di fatto, anche nella serata di sabato 25 ottobre, saranno riconsegnati all’IDF altri due corpi.
    La tregua è particolarmente delicata, soprattutto se si tiene a mente che il Parlamento israeliano, la Knesset, ha votato in prima lettura, su quattro totali, una proposta di legge per annettere la Cisgiordania. Il partito di Netanyahu, il Likud, ha votato a sfavore, ma, vedendo i precedenti, potrebbe essere solo una strategia per evitare ulteriori tensioni. Di fatto, lo stato sionista non ha mai nascosto di voler annettere la Palestina.

    L’Europa divisa sul riconoscimento della Palestina

    Nel frattempo, l’Europa e il mondo hanno tirato un sospiro di sollievo, ma, nonostante alcuni Paesi europei abbiano già riconosciuto lo Stato palestinese, alcuni non sono ancora convinti, prima tra tutti l’Italia. Di fatto, il Governo di Giorgia Meloni, oltre a condannare le violazioni del cessate il fuoco di entrambe le parti, ha dichiarato che sarà pronto a riconoscere la Palestina come stato indipendente solo quando Hamas sarà disarmato e la regione potrà definirsi politicamente stabile. Anche il Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha voluto sottolineare come un prerequisito fondamentale sia il riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina. Della stessa linea di pensiero è il Presidente della Confederazione elvetica, Ignazio Cassis, che ha sottolineato che il primo passo deve essere la formazione di uno Stato palestinese unito sotto un’unica guida politica e soltanto dopo si potrà pensare a una soluzione a due Stati, ma ha anche evidenziato come questo cessate il fuoco sia stato un passo nella direzione giusta.

    Proprio per questo motivo, è di fondamentale importanza la collaborazione tra Hamas e Fatah. Infatti, in questi giorni i vertici stanno cercando un accordo per armonizzare le proprie divergenze, sottolineando che l’unico legittimo rappresentante politico dei palestinesi potrà essere l’Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina. Tuttavia, le due fazioni concordano sul fatto che non accetteranno nessuna forma di annessione o di sfollamento nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e Gerusalemme.

    Donald Trump e la posizione degli States

    Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha rischiato per la seconda volta di vincere il Premio Nobel per la Pace. Di fatto, la prima volta è stato per gli Accordi di Abramo del 2020, con i quali ha regolarizzato le relazioni tra Israele e altri Paesi arabi, come Marocco e Emirati

    Arabi Uniti. Tuttavia, non è riuscito a vincere per la scadenza di presentazione delle candidature, fissata al 31 di gennaio, nonostante, secondo quanto riferito dal Tycoon stesso, Maria Corina Machado, la vincitrice effettiva, ha affermato che se lo sarebbe meritato lui. Infatti, sembra che i leader mondiali si siano dimenticati del suo “Gaza Resort”: alloggi turistici di lusso, un polo manifatturiero e tecnologico high-tec, simile alla Silicon Valley, costruiti sulle macerie di Gaza. Tra le proposte americane per il futuro della Striscia, c’era anche la possibilità di pagare 5 mila dollari a ogni palestinese che avrebbe abbandonato volontariamente il territorio, senza però permettergli di entrare negli Stati Uniti, dal momento che il governo ha sospeso quasi tutti i tipi di visti per i palestinesi.
    Inoltre, il 20 ottobre, Trump ha dichiarato che non sarebbe mai stato raggiunto un accordo se non fossero intervenuti gli Stati Uniti bombardando l’Iran. Di fatto, il Presidente ha considerato l’operazione come “indispensabile” per allentare le tensioni dell’area.

    Le preoccupazioni sul piano di pace

    Anche Amnesty International ha voluto esprimere le sue preoccupazioni sull’attuale piano di pace. Infatti, come riporta Amnesty Italia, la Segretaria Generale, Agnès Callamard, ha dichiarato che il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale è necessario per arrivare alla pace. Inoltre, ha voluto sottolineare come sia di fondamentale importanza interrompere e smatellare il sistema di apartheid nel quale i palestinesi vivono ogni giorno. Callamard ha voluto anche affermare: “È triste constatare che tutto questo è assente nel cosiddetto ‘piano di pace Trump’, che non chiede giustizia e riparazione per le vittime dei crimini di atrocità né chiama a risponderne i responsabili. Fermare il ciclo della sofferenza e delle atrocità richiede la fine di un’impunità radicata nel tempo, che è al centro delle ricorrenti violazioni dei diritti umani tanto in Israele quanto nel Territorio palestinese occupato. Gli stati devono tener fede ai loro obblighi di diritto internazionale e portare di fronte alla giustizia i responsabili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio”.

    Attualmente, secondo quanto riporta El País, si stimano 68519 vittime dall’inizio dell’offensiva israeliana, con oltre 170 mila feriti. Per di più, solo dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, le IDF avrebbero ucciso più di 93 palestinesi, ferendone più di 300. Inoltre, secondo le autorità locali, oltre diecimila persone sarebbero ancora sotto le macerie dei palazzi distrutti dai bombardamenti. Di fatto, secondo il programma satellitare Unosat dell’Onu, dall’inizio del conflitto, Israele avrebbe danneggiato o distrutto circa il 78% degli edifici presenti nella Striscia, circa 193 mila palazzi.

    Matteo Boschetti

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  • Armanda Desidery – Incanti e Disincanti (NoWords, SoundFly, Self 2025)

    Armanda Desidery – Incanti e Disincanti (NoWords, SoundFly, Self 2025)

    La Napoli di Giovanni Desidery, quella del jazz, del Night e delle stupende colonne sonore, rivive nel sangue e nell’anima e nell’ispirazione latina della pianista e compositrice partenopea Armanda Desidery. Che giunge, in maniera virtuosa, brillante e ariosa, a una creatività che esplode nel percorso di “Incanti e Disincanti”. Undici tracce, imprevedibili, ariose, ma anche intimiste, che spaziano, in totale libertà , a disegnare un omaggio, elegante e composito, al tango e al latin-jazz, con venature sudamericane. Uno sguardo femminile attento, riempito di sano animo mediterraneo: uno stile partecipe e celebrativo, che respira, come si avverte nelle ballate Savana e “Come il sole al tramonto, che ci riportano ai confini del sud del mondo con una presenza orchestrale importante e “fieristica”. È una big band di musicisti quella a cui si affianca, per tutto il progetto, Desidery, che dirige ammaliando con un profumo musicale caleidoscopico, in grado di fondere in un abbraccio, come in Loredana’s Tango, leggera, tenue, andante, piccolo gioiello di piano, la Napoli di Elvira Donnarumma e i tangheri di Buenos Aires; Intimismo e jazz più evocativo in Sunrise fanno da contraltare ai ritmi neapolitan-jazz, a tinte spagnoleggianti, di Qualcosa di Più, un universo che chiude un cerchio, come un ritrovo, fatto di passione e ricordi a cavallo tra realtà e immaginazione. Un album che appare come un mondo sonoro preciso, anche se figlio di una vogliosa e alta creatività compositiva. Un legame con l’immensa orchestralità del maestro Desidery che sorprende e fa venire fuori anche tutta l’immaginazione sonora nel solco di una napoletanità istrionica, che lega il mondo latino al ‘900 e il jazz alle sue stesse radici e alle chitarre iberiche.

    Sergio Cimmino

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  • Buon compleanno Coppedè

    Buon compleanno Coppedè

    Roma ha festeggiato uno dei suoi in-canti, il quartiere Coppedè che pare essere esso stesso omaggio alla bellezza, all’arte, a quel senso mistico ed esoterico portatore di poesia e magia che si nasconde e poi rivela sotto ogni sguardo nelle volte e negli archi della (sua) medesima architettura che lo regge.

    Un secolo di straordinaria bellezza, tra la zona di via Salaria e la via Nomentana, alla fine di settembre, ha visto celebrare il II municipio romano con convegni sull’arte, sulla moda e sullo spettacolo; mostre guidate; sfilate di auto d’epoca e a concludere, nell’ultima giornata di domenica 28 settembre, il concerto della Fanfara della Polizia di Stato diretto dal Maestro Massimiliano Profili.

    Originariamente destinato agli abitanti dell’alta borghesia, il quartiere Coppedè ancora oggi mantiene parte di quegli abitanti ed ospita, nei suoi edifici, studi professionali di diverse tipologie e studi cinematografici e il legame con il cinema si ritrova anche sulle pellicole cinematografiche tra le quali non possono omettere quelle di Giovanni Pastrone con Cabiria e, ancora Dario Argento, Francesco Barilli, Mario Bava e quelle internazionali con The Omen di Richard Donner.

    Ma l’ambientazione magica si attualizza (anche, tristemente) attraverso le attività sociali del Liceo Scientifico Amedeo Avogadro che, in collaborazione con l’associazione “Donne in Genere Onlus” gestisce due sportelli di ascolto per casi di molestie e abusi.

    Minuscolo quartiere, se paragonato alla grandezza degli spazi urbani romani, il quartiere Coppedè resta un museo a cielo aperto e luogo architettonico e culturale di immensa magnificenza.

    Claudia Dell’Era

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  • Una battaglia dopo l’altra

    Una battaglia dopo l’altra

    Dove si va quando si è toccato l’apice? Che fare di sé una volta che gli anni migliori sono alle spalle, quando ormai tutto sembra esser stato detto? Forse, smaltita la sbornia di vita, occorre tornare sui propri passi, nella speranza di ritrovare quel che è andato perso.

    Da questo punto di vista, non si può non scorgere un certo autobiografismo in Una battaglia dopo l’altra, decima fatica del californiano Paul Thomas Anderson. Medesima è la tensione che pervade l’opera del regista di Boogie Nights e la storia di Ghetto Calhoun: l’uno un artista ormai consacrato da vivo, l’altro un ex-agitatore accasatosi a fatica e male; entrambi costretti, per volontà o circostanza, a entrare in azione, caricare armi lasciate a prender polvere e dare, forse un’ultima volta, il tutto per tutto.

    Allora si ritorna, in e all’azione: Una battaglia dopo l’altra segna il ritorno di Anderson a un cinema sanguigno e massimalista, al termine di una lunga fase crepuscolare la quale, almeno a partire da Il petroliere (2007), aveva condotto l’autore di Magnolia lungo i sentieri di un raccontare languido, intimista, sempre più lontano dal virtuosismo e di contro teso a una spoliazione progressiva delle sue forme.

    Il rigore di The Master (2012) e del malriuscito Vizio di forma (2014) aveva perfino spinto il regista in Europa, con quel Il filo nascosto (2017) che incarnava l’apice di un cinema sempre meno appariscente, di un significare per immagini ieratico e sotterraneo.

    Non che tale cinema abbia mai difettato di una sana visceralità; è tuttavia indubbio che il vortice immaginifico del primo Anderson mancasse da tempo. La tensione tra vecchia e nuova maniera toccava senz’altro il suo apice in Licorice Pizza (2021), racconto di formazione in cui vitalità adolescenziale e nostalgia senile si combattevano una sequenza dopo l’altra, incapaci di conciliarsi.

    Non si teme – semmai si spera – di provocare gli animi nel dire che il senso profondo di Una battaglia dopo l’altra sta tutto nella superficie. Liberamente ispirato a Vineland di Thomas Pynchon, il film non appare, né pretende di apparire, come una chiosa sul nostro tempo. Questione tutt’al più di prosa: quella vorticosa, psichedelica, smisurata del romanziere, che Anderson traduce nell’incontenibilità delle sue forme tradendone scientemente la lettera, riuscendo là dove Vizio di forma (anch’esso tratto da Pynchon) falliva invece miseramente.

    Inutile rintracciare discorsi o loro brandelli: le preoccupazioni sul ritorno dei fascismi, su MAGA e sul Deep State, sul suprematismo bianco e su Black Lives Matter restano rimandi superficiali, senza che vi sia qualsivoglia elaborazione degli stessi. Bene forse per chi, di fronte all’insuccesso di cassetta, brinderà al fiasco dell’ennesima pellicola woke (come se i film di Anderson non lo fossero sempre stati), non per chi si aspettava che l’autore di Ubriaco d’amore incitasse alla lotta. Con buona pace di chi cerca – e certo troverà – dense stratificazioni significanti nel suo ordito, Una battaglia dopo l’altra non ha assolutamente nulla da dire sulla nuova America, sulla lotta armata, sul militarismo a stelle e strisce o sul trumpismo. I suoi personaggi sono macchiette, i suoi apparati caricature da fumetto, il suo intreccio un guazzabuglio da soap opera, i suoi proclami un bignami di tutto quanto le fazioni pensano una dell’altra.

    È tutto un lavoro sugli spazi – quelli lisci e sconfinati delle autostrade nel deserto, quelli reticolari di città e stanze dei bottoni – di movimento, di fuoco indefesso e continuo. La scrittura scarta ogni profondità e insegue il boato del Kalashnikov, la recitazione è la parodia del dramma spionistico, la crudeltà è puro gioco infantile.

    Meno male: Una battaglia dopo l’altra sprigiona una vitalità e una gioia del raccontare che anni di pellicole inamidate, nostalgiche, confortanti, avevano preteso di seppellire una volta per tutte. È caccia ai rimandi, alle filiazioni: incombe l’action di vecchia scuola, quello del Sam Peckinpah di Getaway, del Richard Sarafian di Punto zero, del Walter Hill di Driver, dello Spielberg di Sugarland Express. Quant’è bello vedere Anderson tornare a inventare: dal prologo che è farsa del terrorismo, a una guerriglia notturna che non teme di battere per venti minuti sullo stesso tema ritmico (ancora una volta di Jonny Greenwood dei Radiohead), a un inseguimento finale che è pura estasi di una corsa filmica fuori controllo; materia forte e senza vergogna, di quella che non avrebbe sfigurato in Grindhouse – A prova di morte, del collega e amico Quentin Tarantino.

    La menzione non è accidentale. Dopotutto, Anderson e Tarantino hanno condiviso di tutto: passioni, stili, eccessi, un intero universo di rimandi al buon vecchio cinema dei Sessanta e Settanta. Interessi e contingenze li avranno allontanati ma, si sa, si torna sempre dove si è stati felici. Non dovrebbe allora sorprendere che i due, giunti al decalogo delle loro fatiche, siano arrivati a rispecchiarsi l’un l’altro. Dopotutto C’era una volta a Hollywood, col suo incedere da dormiveglia, poteva essere tranquillamente opera di Anderson, almeno quanto l’ultima opera di questi sfonda la corsia del regista di Django Unchained. Perfino la passione per i vecchi formati ormai li accomuna: Tarantino che filma il dramma da camera The Hateful Eight in Ultra Panavision 70, Anderson che per Una battaglia dopo l’altra riesuma il formidabile VistaVision, quest’anno improvvisamente tornato di moda.

    Variazioni, si dirà; operazioni postmoderne per un cinema che non sa più dove andare. Ci si accontenti del fatto che, ovunque si trovi, una volta tanto c’è da divertirsi. Con buona pace del potere, di chi lo combatte e di chi, incapace di intrattenersi, aspetta la battuta profonda che non arriverà mai.

    Fabio Cassano

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  • Carlo Menzinger, la nobiltà della fantascienza

    Carlo Menzinger, la nobiltà della fantascienza

    Tra gli scrittori di fantascienza italiana spicca un nome che evoca gli Asburgo: Carlo Menzinger di Preussenthal. Nato a Firenze, città dove vive, Carlo è un autore di origine austriaca, i suoi antenati, baroni, si stabilirono a Firenze prima dell’Unità d’Italia. Carlo, loro discendente e nobile decaduto, si dà da fare con il lavoro in banca e sfoga la sua fantasia nel scrivere racconti e romanzi di fantascienza. Gli auguriamo tutto il successo possibile.

    Come nasce il tuo processo creativo?

    Spesso scrivo su sollecitazione. Per i racconti ricevo richieste per storie a tema da antologie e riviste. A volte il tema me lo do da solo. Parto da questo. Una volta che ho l’argomento comincio a ragionare su come svilupparlo, in quale genere letterario collocarlo (spesso la natura della rivista o dell’antologia per cui scrivo guidano; ma se si tratta, per esempio, di letteratura fantascientifica dovrò decidere in quale genere collocarmi tra i tanti possibili (distopia, space opera, cronoviaggi, climate fiction, hard sci-fi, cyberpunk, steampunk, apocalittico, post-apocalittico…). Si tratta poi di decidere l’ambientazione: su mondi alieni? Sulla Terra? In Europa? In Italia? A Firenze? Quando? In una data epoca storica? Oggi? In un futuro prossimo? In un futuro remoto? In un’epoca non ben definita? Poi si decidono il protagonista, la trama, la morale, lo stile, il punto di vista. Raramente decido subito il finale: lo decide la storia stessa. La direzione in cui però intendo andare cerco di immaginarla con la bozza di trama. A volte mi fa comodo collegarmi a personaggi, situazioni, idee, concetti già sviluppati in altre mie storie o a personaggi reali o letterari. Quindi mi metto a scrivere e di solito la storia vien giù quasi da sola. C’è poi l’editing. Almeno tre riletture, possibilmente piuttosto distanziate nel tempo, per acquisire il necessario distacco dall’idea originale. Scrivere romanzi e tutta un’altra cosa. Per i romanzi la partenza è quasi sempre un’idea che ho in testa da un po’ e che finalmente decido di sviluppare. Qualche volta posso partire da un racconto come per La felicità affogata che nasce da “Firenze underground”, una delle storie dell’antologia “Quel che resta di Firenze”. Questo romanzo è nato con lo scopo preciso di partecipare al premio World SF Italia, che ha poi vinto a ex-aequo. Quindi alcune caratteristiche, come la lunghezza e il genere erano dettate dal bando di concorso. Ad esempio, “Il Colombo divergente” nacque dall’idea di immaginare un diverso sviluppo della Storia. Scelsi Cristoforo Colombo perché la sua avventura era stata un momento di svolta epocale e perché è un personaggio ben noto. Volevo che la divergenza storica fosse evidente per tutti. Più tardi scoprii che questo tipo di romanzi si chiama ucronia.

    Com’è nato il tuo sogno di diventare scrittore?

    Non so se ho mai sognato di diventare scrittore. In qualche modo lo sono sempre stato. Alle elementari scrivevo fumetti. Al liceo racconti e poesie e feci il primo tentativo di romanzo. La mia prima pubblicazione è del 1989. Sono passati trentasei anni! Il sogno semmai è sempre stato e tuttora lo è poter vivere di scrittura ma sin da ragazzo ho sempre saputo che poteva essere solo un sogno e così mi sono laureato in economia e commercio, anziché in lettere, e ho trovato un lavoro in banca che mi permettesse di coltivare la passione per la scrittura. Non mi sono mai illuso di poter lasciare il lavoro per fare lo scrittore a tempo pieno, ma l’ho sempre
    sperato. Ormai che sono vicino alla pensione, la possibilità di lasciare la banca per la scrittura è sparita, ma nel contempo si avvicina il momento in cui potrò, forse, scrivere senza lavorare.

    Quali sono le tue passioni oltre la scrittura?

    La mia vera passione è proprio la scrittura, ma questa va a braccetto con la lettura. Ci sono falsi scrittori che non leggono. Diffidatene! Più leggo e più comprendo l’assoluta superiorità del genere fantastico sul mainstream e della fantascienza nell’ambito del fantastico. È il genere più creativo, quello che ci fa riflettere di più, quello che davvero ci dice chi siamo nel profondo. A volte mi pare di aver letto tutto il meglio della fantascienza ma scopro sempre poi qualcosa di nuovo. Amo anche viaggiare. Viaggiare significa conoscere nuovi luoghi, nuove culture, nuovi modi di pensare. Non deve essere un semplice spostarsi da turisti irregimentati. Il modo migliore per viaggiare resta leggere! Amo anche viaggiare nel tempo. Ho costruito una macchina apposta. Si alimenta con dei file speciali: gli eBook. Un’altra cosa che mi piace è, infatti, la Storia. Credo che il modo migliore per capirla e conoscerla sia l’ucronia. Ci insegna come la storia sarebbe potuta essere. È l’approccio più moderno, intelligente e scientifico a essa. Un esperimento mentale che potrebbe anche diventare narrativa. Io non sono all’altezza di fare lo scienziato storico (a dir il vero non conosco nessuno che lo sia, il
    mondo è pieno di cronisti), per cui mi limito a fare narrativa ucronica. Mi appassiona (e mi preoccupa) anche la tecnologia con il suo enorme potenziale. Mi sono laureato con una tesi sperimentale sull’intelligenza artificiale nel 1990. Sembrava che si dovesse realizzare
    nel giro di poco tempo. Ha impiegato invece trent’anni ad arrivare ma ora è pronta a rivoluzionare il mondo.
    Per fortuna tra qualche anno sarò in pensione, perché tra robotica e AI mi chiedo se resterà più qualche lavoro per gli esseri umani. Capire dove stiamo andando è però affascinante.

    Kenji Albani

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  • Come prevenire e trattare le macchie solari con attivi funzionali

    Come prevenire e trattare le macchie solari con attivi funzionali

    Durante l’estate, la pelle si illumina grazie al sole, ma può anche andare incontro a un effetto meno desiderato: la comparsa di macchie scure, spesso concentrate su viso, décolleté e mani. Si tratta di discromie chiamate macchie solari, causate da una produzione irregolare di melanina in risposta ai raggi UV.Si possono prevenire e trattare in modo efficace, soprattutto se si agisce con una skincare mirata, ricca di attivi funzionali depigmentanti e uniformanti.Perché compaiono le macchie solari?Le macchie solari si formano quando i melanociti, le cellule responsabili della produzione di melanina, reagiscono in modo eccessivo alla stimolazione solare. Le cause possono essere:• esposizione prolungata al sole senza protezione adeguata• uso discontinuo della protezione solare• cambiamenti ormonali (gravidanza, pillola, menopausa)• infiammazioni pregresse della pelle (post-acne, dermatiti)• fotosensibilizzanti (farmaci o cosmetici mal gestiti)

    Altri consigli per prevenirle:

    1. La protezione solare è il primo trattamento
 essendo il miglior investimento skincare anti-macchia. Anche in città o nei giorni nuvolosi, i raggi UVA passano e stimolano la melanina.


    2. Siero antiossidante al mattino: la  vitamina C + SPF è un’arma potente perché neutralizza i radicali liberi generati dal sole e aiuta a uniformare il tono della pelle.Come trattarle con attivi funzionali:

    Se le macchie sono già comparse o tendono a tornare ogni estate, è fondamentale introdurre attivi schiarenti e riequilibranti nella routine:Niacinamide (Vitamina B3)Riduce la produzione eccessiva di melanina, calma le infiammazioni e rafforza la barriera cutanea. Perfetta anche per pelli sensibili.Acido TranexamicoSempre più usato per le sue proprietà anti-infiammatorie e depigmentanti. Agisce su macchie ostinate senza sensibilizzare.Acido AzelaicoMultifunzionale: riduce le discromie, affina la grana della pelle e combatte i batteri responsabili di acne lieve. Un ottimo alleato per le pelli miste.Acido MandelicoEsfoliante delicato che stimola il turnover cellulare senza irritare. Utile per schiarire gradualmente macchie e migliorare la luminosità.Retinoidi Stimolano il ricambio cellulare e riducono la visibilità delle macchie. Attenzione però: vanno usati solo la sera e sempre associati a SPF alto.Le macchie solari non sono un destino inevitabile, ma il risultato di abitudini skincare non sempre corrette. Con una strategia mirata, che unisce prevenzione (SPF + antiossidanti) e trattamento (attivi funzionali delicati), la pelle può tornare uniforme, luminosa e visibilmente più sana.

    Alice Freddi

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  • La voce di Hind Rajab

    La voce di Hind Rajab

    Ramallah, Cisgiordania, 29 Gennaio 2024. Il centralino della Mezzaluna Rossa, attiva nel soccorso alla popolazione palestinese nei territori occupati da Israele, riceve una chiamata da una bambina: si chiama Hind Rajab, ha otto anni, ed è intrappolata in un’auto coi corpi senza vita dei suoi famigliari, circondata dal fuoco della milizia israeliana. Quattro dei centralinisti cercano di stabilire un corridoio umanitario perché una loro ambulanza la porti in salvo; nel frattempo devono però ascoltare la bambina e farle coraggio, ma sarà tutto inutile.

    È accaduto per davvero. Accade per davvero.

    Sussiste un problema di fondo, nell’orrore che sta martoriando il Medio Oriente: l’apparente, paurosa assenza di figure. L’adagio è sempre valido: un morto è tragedia, un milione di morti è statistica. E di statistiche l’umano che resta ci sta morendo intorno. Al di qua degli schermi che ci restituiscono l’immagine del genocidio, le vittime appaiono come massa indifferenziata: senza nome, senza storia, talvolta anche senza volto: come nell’opera fotografica del palestinese Mohammed Salem, le madri di Gaza paiono servire tutt’al più il modello di una Pietà cristiana, universale in virtù del suo anonimato. Bene per chi, nella pace vigile che domina l’Occidente, ha voglia di consultare di tanto in qua la coscienza; meno per chi, tra un massacro e l’altro, non scorge in viso la pietà da fin troppo tempo.

    Il rischio è lo stesso che corre La voce di Hind Rajab: Leone d’argento a Venezia, bombardato di premi a scontare tutt’altri bombardamenti, il film di Kawthar ibn Haniyya rischia di essere la proverbiale foglia di fico, da lodarsi più per gli intenti (nobilissimi, certo) che per i meriti reali. Si potrebbe chiudere qui l’argomentazione, congratularsi coi belli e bravi che hanno dato al film di Haniyya tutti i riconoscimenti possibili (fuorché il primo, assegnato a Jim Jarmusch per Father Mother Sister Brother) e appendere l’analisi al chiodo in nome del buon cuore. Sarebbe un disservizio, giacché sospendere l’esame in nome dei valori farebbe torto all’uno come agli altri.

    Dunque la forma, ovvero la forma del dramma. La voce di Hind Rajab parte da un’idea semplice, eppure di estrema intelligenza: contaminare il reale e il fittizio, modellare la finzione sul vero, situarsi sulla sottile linea tra documentario e ricostruzione. È infatti la vera voce della piccola Hind Rajab a ferire il silenzio nei primi attimi del film: si tratta di registrazioni reali della chiamata, e per tutta la durata del dramma il dialogo sarà intrattenuto con questa forma labile, un lamento che ha per sola figura la forma d’onda della voce al telefono. I protagonisti piangono, litigano, fingono un conforto che devono dare pur non avendone, al cospetto di quest’onda sonora che smaterializza la presenza della bambina e insieme la rende acuta, pervasiva, ineludibile. Le uniche altre immagini della piccola sono quelle reali, estrapolate dalle piattaforme social e affisse su una parete che diviene sempre più una lapide.

    Ai protagonisti non rimane che una passività irrequieta, quella di chi osserva e non può o non vuole agire; manifesto politico, senz’altro, ma anche riflessione sul ruolo dell’osservatore, sulla sua impossibile neutralità, su un ascoltare che è già un agire; una presa di posizione imposta, se non dalla volontà, quantomeno dal mondo esterno e dal posto che vi si occupa. Siamo nel territorio di Blow out e de La conversazione, ovvero alla presenza schiacciante non dello sguardo ma dell’ascolto, che dello sguardo non ha l’iconicità confortante e leggibile, l’interpretabilità comoda di un’immagine qui paurosamente occulta.

    Certo La voce di Hind Rajab è un’opera didascalica, che sia per vocazione o per limite; il suo dramma conosce poche sfumature, il suo teatro dell’inazione è di immediata leggibilità, il suo linguaggio privo di ambiguità. Il rischio è quello di un’assoluzione incondizionata, di chi vorrebbe correre fuori in spregio alle regole della guerra (per chi si ostina a definirla tale, come se Hind Rajab fosse l’ennesima terrorista in pectore), come di chi temporeggia tra le strette maglie di una macchina umanitaria continuamente ostacolata. La disillusione è l’arma e il limite del film, il fattore indispensabile alla sua pedagogia: pare a tratti che abbiano tutti ragione e torto; frattanto là fuori, musichette o meno, c’è la morte.

    Il disincanto detta forme convenzionali, il documentarismo più sfacciato, estetiche concitate per tempi concitati: la solita macchina a mano irrequieta, il naturalismo più vero del vero, un narrare visivo che ha smesso da tempo di scuotere le forme note per diventarlo a sua volta.

    È tuttavia negli ultimi, drammatici minuti che l’operazione rivela il suo senso: quelli in cui, dopo l’isteria di un’immagine scossa fino alla deformazione, all’aberrazione ottica, al limite dell’indecifrabile, un lungo piano-sequenza raddoppia realtà e finzione, senza la pretesa di riversare una nell’altra. Il filmato reale ripreso all’interno della Mezzaluna Rossa entra nel flusso del film, gli attori si filmano a vicenda mentre le immagini delle persone reali – quelle che gli interpreti starebbero impersonando – appaiono sincrone sullo schermo del cellulare. Immagine reale e fittizia coesistono nel tempo, libere dall’ansia di simulare e ricostruire. La narrazione visuale è qui realmente epica – nell’accezione brechtiana del termine – e come tale non rappresenta bensì presenta. È questo istante di totale rispecchiamento a cortocircuitare la messa in scena, a rispedire verso il pubblico il flusso infinito di immagini a cui gli occhi e le coscienze paiono ovunque assuefatti; infine, a far sì che La voce di Hind Rajab interpelli l’occhio della mente, e lo obblighi a guardare se stesso.

    Fabio Cassano

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  • Nobel 2025: all’ungherese Krasznahorkai quello per la Letteratura

    Nobel 2025: all’ungherese Krasznahorkai quello per la Letteratura

    Il Premio Nobel per la Letteratura è stato attribuito quest’anno a Làzlò Kraszanahorkai, considerato fra i più grandi scrittori ungheresi di ogni tempo.
    L’Accademia Svedese ha motivato l’assegnazione del massimo riconoscimento mondiale richiamando “la sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte”.
    Nato nel 1954 a Gyula, lo scrittore ungherese porta avanti i suoi studi prima in legge e poi in letteratura ungherese, laureandosi nel 1983 con una tesi sullo scrittore Sandor Marai.
    Viaggia molto sia in Europa – soggiorna a Berlino subito dopo la laurea grazie ad una borsa di studio – sia nel resto del mondo – Cina, Giappone, Stati Uniti.
    Il suo romanzo d’esordio è datato 1985 e s’intitola Sàtàntangò, in esso già si ritrova il suo inconfondibile stile letterario: una prosa caratterizzata da periodi lunghissimi che danno al lettore un opprimente senso di claustrofobia.
    La narrazione densa e complessa assume, infatti, caratteri ipnotici e toni a tratti apocalittici, che evidenziano chiari influssi letterari che sembrano quasi esasperati (Kafka, Dostoevskji, Gogol, Beckett) e che rimarranno il tratto distintivo delle sue opere. Segue nel 1989 Melanconia della resistenza e dieci ani dopo soprattutto War and war (1999), il suo romanzo più celebre, tradotto e pubblicato in tutto il mondo, in cui è narrato il tentativo del protagonista di pubblicare un manoscritto nonostante l’ostilità del mondo che lo circonda.
    Fra i riconoscimenti più importanti ricevuti dallo scrittore va ricordato il Man Booker International Prize conseguito nel 2015 – è stato il primo autore ungherese a ricevere questo premio – e il Premio di Stato austriaco per la letteratura europea nel 2021.
    Ad oggi Kraszanahorkai è il secondo scrittore ungherese ad avere ricevuto il Nobel per la Letteratura dopo Imre Kertész, che lo vinse nel 2002.

    Vittoria Caiazza

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