Pagine di un diario e di un dialogo immaginario, con lui, Francis Bacon
L’ho visto. È lui.
È, lui? – mi chiedo.
Sì. È lui.
Im-perfetto come la natura. Perfetto come la sua A R T E.
Francis Bacon.
Se sapesse che sento le sue urla – penso.
Mi avvicino, lo guardo, non gli dico niente.
Lui non mi guarda.
Gli sono accanto, ora.
Guardo un punto fisso davanti a me, e sorrido. Inizio a parlare. Lui capisce che voglio parlargli. Continua a bere in quel sottofondo di oranghesca curiosità che chiunque riserva per lui, me compresa.
L’aria attorno a noi è densa. Lui, è Francis Bacon. Io, donna di Bacon.
Apro le mani davanti a me.
Le dita aperte, distanti le une dalle altre, le unghie rosse, la pelle pallida bianca tirata.
Come suonassi un pianoforte spingo nell’aria un dito e poi un altro e un altro ancora, dicendo:
dolore
esistenza umana
sofferenza
spietatezza
corpi
corpi umani
come ANIMà–LI
(scandisco bene e A/lungo il suono: ANIMALI), per tre volte.
Poi, insieme, con tutte le dita, suono su tutti i tasti sotto la mia immaginazione, e dico: entra dentro sino a penetrare la carne, fino alle ossa.
Mi giro verso di lui, lo guardo e lui mi guarda, sorridiamo senza sorridere, le nostre bocche ferme, le lingue sussurrano: CARCASSA.
Senza dubbio noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio, mi stupisco sempre del fatto di non trovarmi lì, al posto dell’animale.
Perché ne sei ossessionato? – gli chiedo.
Anche io sono ossessio-nata. Anzi, credo di essere nata da quell’ossessione lì.
Per me l’arte è un’ossessione e, poiché noi siamo esseri umani, siamo noi i soggetti della nostra ossessione. (…) Quello che voglio è distorcere la cosa ben al di là dell’apparenza, ma nella distorsione, ricondurla ad essere testimonianza dell’apparenza.
Le tue tele, soffrono – gli chiedo, quando sentono quelle urla e il corpo deformarsi?
Mi guarda. Curioso o infastidito. Fa un cenno verso di me, come due estranei pronti a scambiarsi una stretta di mano… ma noi … no. Noi non ci tocchiamo.
Vorrei dirgli che è inutile farlo. Ma riesco solo a dirgli: quella che presento non sono mai io.
Segue una pausa breve.
E un cenno con le labbra come se la parola volesse uscire ma anche lei, resta lì, anche leicarcassa.
La mia carta soffre, gli dico.
Lo guardo bene in faccia.
La sua faccia è strana. Struggente, un po’ affranta – forse, i suoi lineamenti sono leggermente asimmetrici: gli occhi, a guardarli bene, sono molto diversi tra loro.
Il suo sguardo è profondamente spietato. Con chiunque.
Quanto pesa il tuo urlo? – gli chiedo.
Anche i tuoi corpi vengono de-formati, mutilati, lacerati dal loro stesso urlo, come il mio?
Faccio domande. Solo domande. Lui non risponde.
Inizio a parlare. Lui mi guarda.
Mi lascia congelare come i suoi corpi dipinti e lasciati soli dentro il vuoto di quelle forme nude. Arditamente geometriche. Quasi cadute in un bilico più profondo di un precipiz-io.
Più scuro di un abisso.
Anche le mie urla sono esauste.
io
mangiata da Dio
sono fuggita
vestita di carne
tenendo stretto
il mio urlo nella bocca
e
ho conservato me
dentro
la colonna bianca e schiumosa
che mi regge
vivo
secondo la tradizione dei miei giorni
vivo
con tutto ciò che è in me
Lui non risponde.
Allora, io continuo. A bassa voce:
sono dentro l’urlo
getto il suo sguardo
sino a squarciare
il giardino di me stessa
divento
una donna
di Bacon
mi contorco
come un fiore
nato da una natura imperfetta
E, allora, sorride. Piano.
Beve. Guarda davanti a lui e io guardo il vuoto dal quale trae le sue parole:
Voglio fare quello che diceva Valéry: dare una sensazione ma non la noia di comunicarla.
Poi, parliamo insieme, uno sopra l’altra.
Le nostre voci si mescolano si fondono si dipingono insieme e poi entrano sotto dentro lo stesso conficcarsi nel brusio continuo che c’è intorno a noi in quella sala che è tutta lì, per lui, per la sua presentazione.
E allora quei corpi piccoli grandi urlanti di sessi diversi diventano i suoi quadri e le mie poesie e tutto insieme un’esistenza feroce, una fauna selvatica ed elegante ma urlante come bestiame, umano. Umano bestiame.
Lui parla ma non riesco a sentirlo più.
E allora la mia voce si alza per andare da lui, per chiedergli q u a n t o quegli URLI facciano male ai suoi corpi.
Mi sento unta dalla sua grandezza.
Tu, chi sei? Mi chiede.
Bevo, anche io. E gli rispondo, così:
partorisco tuoni dall’altro mondo
divento bestia con tre teste
e
una di queste teste
s’agita di continuo
mentre vede i suoi giorni
finire
in un macello
sono quella bestia
sono donna fragile e dura
sorella docile
figlia irresponsabile
sono grembo
utero
mani
sono occhi
cuore
sono pensiero
utopia
sogno
incubo
sono
turbamento inconscio
e
non sono mai come mi vedono gli altri
Ma lui non mi sente dentro quel macello vivo. Di carcasse.
Dopo le mie confessioni che non sentì mai Bacon restò in silenzio.
[Io]
sono dentro l’urlo
getto il suo sguardo
sino a squarciare
il giardino di me stessa
divento io
donna
di Bacon
Claudia Dell’Era
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