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  • Mamdani, un uomo nuovo a New York

    Mamdani, un uomo nuovo a New York

    Zohran Mamdani è stato ufficialmente eletto Sindaco di New York City, nella giornata del 5 novembre 2025 e, nonostante sia figlio di immigrati musulmani e abbia solo 34 anni, guiderà la Grande Mela dal 1° gennaio, diventando così il primo Sindaco musulmano d’America. Inoltre, lui stesso si è definito un socialista, quasi impensabile nel mondo americano guidato dal Tycoon Donald Trump, nato proprio a NYC. Tuttavia, sembra che sia riuscito a conquistare pure lui. Mamdani è passato dall’essere una persona anonima, non solo del mondo, ma persino all’interno della sua Città, a essere ovunque per la sua campagna elettorale, con hashtag virali e collaborazioni con diversi creator delle varie piattaforme social. Di fatto, la sua giovane età avrebbe potuto spaventare molti elettori, ma così non è stato, forse anche perché è la stessa New York a rappresentare il sogno americano del “self-made man”.

    La votazione

    In particolare, la sua campagna elettorale è stata così efficace che è riuscito a farsi votare da 1.035.646 persone, come Wired, superando di oltre 180mila il suo principale avversario, Andrew Cuomo: un candidato democratico che, perdendo alle primarie, ha deciso di correre da indipendente. Un’affluenza così alta, oltre 2 milioni di votanti, non si vedeva dal 1969, con l’elezione di John Lindsay. Infatti, a importare e fare la differenza sono stati i temi. Il neosindaco ha messo in chiaro fin da subito che non sarebbe stato zitto su alcuni temi di rilevanza mondiale, come la crisi umanitaria e il conflitto che sta coinvolgendo la Striscia di Gaza e i cittadini palestinesi. Di fatto, è stata la sua visione della salvaguardia del più debole, dei bisognosi, a fargli vincere l’elezione contro quella che è considerata la “dinastia” Cuomo. Nello specifico, nonostante abbia raccolto solo un quarto per la sua campagna elettorale, “solo” 10 milioni a sostegno del candidato emocratico, è riuscito a vincere pur essendo al centro del mirino di molti.

    La campagna elettorale

    Durante la sua iniziativa “City Bike Mamdani”, in cui pedalava per la città, un passante gli ha urlato: “comunista!”; ma lui non si è scomposto e gli ha risposto, per poi riprendere il suo discorso.
    Di fatto, tra le sue proposte per la Grande Mela, possiamo trovare bus gratis e assistenza all’infanzia universale finanziati con le tasse dei più ricchi. Inoltre, è finito al centro del mirino per aver fatto un discorso in arabo, attirando così il tweet del repubblicano Brando Gill del Texas, in cui ha scritto: “Solo un paio di decenni dopo l’11 settembre, il principale candidato a sindaco di New York sta conducendo una campagna elettorale in arabo. L’umiliazione è il punto.”. Anche Cuomo ne ha approfittato per provare a seppellirlo sotto l’islamofobia, quando durante un talk show ha detto che Mamdani si sarebbe schierato dalla parte dei terroristi. Inoltre, per peggiorare la situazione, lo staff di Cuomo avrebbe pubblicato un post generato con l’intelligenza artificiale a sfondo razzista, poi cancellato. Tuttavia, un giornalista lo ha ri-postato, raccogliendo milioni di views.

    Probabilmente è stato anche questo comportamento a convincere New York a votare per Zohran Mamdani, la Città degli immigrati si è schierata con lo “straniero”, anche se in realtà è del Queens. Anche lo stesso Eric Adams, il Sindaco uscente che ha supportato Cuomo, ha voluto sottolineare: “New York non è l’Europa”, riferendosi all’immigrazione di musulmani. Inoltre, a spararla grossa, ci ha pensato il candidato repubblicano, Curtis Sliwa, dicendo che

    Mamdani supporta gli jihadisti. Tuttavia, con la sua campagna elettorale rivolta alla “universalità” degli elettori, è riuscito anche a raccontare cosa è significato crescere nella Grande Mela dopo l’11 settembre 2001, spiegando perché sua zia non si sente sicura a prendere la metro per via del suo hijab. Di fatto, come riporta il Washington Post, ha dichiarato: “Essere musulmano a New York significa aspettarsi umiliazioni [indignity]. Ma non sono le umiliazioni a renderci diversi, ci sono molti newyorkesi che le subiscono. È la tolleranza verso quelle umiliazioni a farlo. Credevo che costruendo una campagna fondata sull’universalità avrei potuto definirmi come il leader che ambisco a essere”. Inoltre, ha voluto continuare aggiungendo: “E pensavo che comportandomi in modo irreprensibile o mordendomi la lingua di fronte ad attacchi razzisti e infondati, continuando a tornare al mio messaggio centrale, sarei riuscito a essere qualcosa di più della mia fede”.

    L’incontro con Trump

    Nella giornata di venerdì 21 novembre 2025, Mamdani si è recato a Washington per incontrare Donald Trump alla Casa Bianca. In particolare, nonostante i due abbiano delle opinioni completamente contrastanti e si siano lanciati delle frecciatine neanche tanto velate in questi ultimi giorni, l’incontro sembra essere andato bene, ma si potrebbe considerare come il classico “buon viso a cattivo gioco”.

    In particolare, Mamdani non è stato risparmiato dalle affermazioni di Trump, che durante la campagna elettorale aveva detto: “[Mamdani] Vuole distruggere New York”. Sul social di sua proprietà, Truth, a inizio novembre aveva scritto: “Se il candidato comunista Zohran Mamdani vince le elezioni per il sindaco di New York City, è altamente improbabile che contribuirò con fondi federali, diversi dal minimo richiesto, alla mia amata prima casa”. Inoltre, aveva anche affermato che lo arresterà se dovesse provare a ostacolare gli agenti della ICE.

    Tuttavia, il neosindaco non si è lasciato intimidire, affermando che vuole rendere New York a prova di Trump (“Trump-proof”). Inoltre, non si è nascosto dietro ai giri di parole per definire il 47esimo Presidente degli Stati Uniti come: “fascista”; neanche quando una giornalista gli ha chiesto direttamente all’interno dello Studio Ovale. In quell’occasione, però, il Tycoon è intervenuto dicendo che si erano già confrontati e che era più semplice dire di sì che spiegare, oltre a sottolineare che non gli importa. [“That’s okay, you can just say yes. It’s easier than explaining it. I don’t mind”.]

    L’incontro tra il cosiddetto “fascista” e il cosiddetto “comunista” sembra essere andato molto bene, ma è altamente probabile che sia stata una farsa necessaria per la stampa, oltre che per gli elettori. Infatti, New York è una tra le città più costose del mondo, non solo degli States, però è anche una tra le città che genera più guadagno.
    Anche per questo motivo entrambi sono rimasti pacati ed educati, ridendo e scherzando, senza entrare apertamente in conflitto. Inoltre, Trump ha anche detto che, dopo quest’incontro, potrebbe pensare di trasferirsi nuovamente a New York, mentre Mamdani ha sottolineato che è stata un’ottima occasione di confronto anche per rappresentare i newyorkesi.

    Matteo Boschetti

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  • LILITH – LA PRIMA RIBELLE  di Rainman Cavendish

    LILITH – LA PRIMA RIBELLE  di Rainman Cavendish

    Lilith.

    Prima moglie di Adamo, creata contemporaneamente a lui.

    La sua creazione avvenuta insieme a quella di Adamo la pone immediatamente in una  posizione di partenza paritaria a quella dell’uomo.

    L’autore Cavendish ne esplora l’archetipo, ne esamina il simbolismo facendo scaturire nell’immaginazione di chi legge tutta la potenza del valore sociale e del  simbolismo. Il taglio saggistico di Cavendish è chiaro; arriva a qualunque lettore curioso o a quello che desidera arricchire le proprie conoscenze. La sua scrittura e il suo linguaggio sono immediati, non nascondono nulla al loro interno, così il susseguirsi delle parole crea informazioni immeditamente fruibili. Tutto è diretto semplice, chiaro e tutto partecipa alla creazione di un discorso morbido, fluido, agile e reso agibile.

    Il posizionamento del titolo nella collana “Mind, Body & Spirit – Mysticism” anticipa i suoi caratteri. Tutto si muove lungo la riflessione e lo studio della figura di Lilith, nell’equilibrato schema divulgativo che ne esalta la sua carica simbolica, come già avevano fatto anticamente i testi cabalistici e quelli dello Zohar, dove i significati mistici e simbolici erano portatori identificari della sua figura.

    In questo saggio mitologico l’autore segue tutte le orme lasciate da Lilith in un tempo lunghissimo, da quello mesopotamico a quello ebraico, per questo risulta impossibile costruire una Lilith nella sua interezza. Le sue variegate descrizioni, nella sua lunga storia, possono caricarsi di rischi interpretativi, potendo inciampare nella volontà di una descrizione lineare vacua. Ciò nonostante resta uno scritto, quello di Cavendish, interessante e fruibile, che si declina nella volontà che traccia il carattere rivoltoso della (sua) prima donna ribelle natacontemporaneamente alla sua stessa storia e che resta ponte: legame che si lega a tutte le epoche e che mai diventa punto che termina, che definisce, che chiude e conclude.

    Resta simbolo di emancipazione per l’immaginario femminile, quel femminile troppo confuso con il femmineo, e spesso troppo chirurgico e svuotato di carattere. Lilith resta nei libri, nei documenti, nelle ciotole magiche, nei mostri, nei demoni femminili descritti in ciascuna delle rappresentazioni antichissime e continua con la sua voce potente ad essere simbolo e rappresentazione femminile della ribellione assolutamente necessaria per l’affermazione del proprio sé femmininile e di donna-individuo. È lei stessa che individua se stessa per poi procedere nelle sue azioni chiare e dimostrare la sua natura.

    Lilith rappresenta è l’attualizzazione della donna ribelle e ricorda che l’istinto alla ribellione viene e proviene da una forza esterna che vuole togliere, sottrarre, azzittire.

    Lilith – La prima ribelle di Rainman Cavendish (self published e-book, 2022)

    Claudia Dell’Era

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  • “Adolf Hitler – Il mostro dietro la follia” di Tyrone G. Rose

    “Adolf Hitler – Il mostro dietro la follia” di Tyrone G. Rose

    Breve saggio sulla vita di Adolf Hitler, presentato al lettore in maniera compiuta, esaustiva, ma allo stesso tempo semplice.

    L’autore, infatti, pur possedendo solide basi documentali su cui si muove con sicurezza non appesantisce la narrazione con dati e citazioni e offre al lettore un testo di facile lettura e agevole comprensione.

    Così questo saggio, più che presentarsi come un approfondito studio storico, ci appare come una matura riflessione sulla vita, le idee, le aspirazioni e gli orrori compiuti da Hitler e si può a giusta ragione consigliare a due distinte classi di lettori.

    Per la sua semplicità e la sua linearità è da consigliare sicuramente a chi per la prima volta vuole avvicinarsi allo studio ed alla conoscenza di questo drammatico protagonista della storia del Novecento, ma al tempo stesso per la visione generale che offre e per le riflessioni che ispira può porsi come interessante lettura anche per chi di Hitler ha una conoscenza approfondita e non necessita, pertanto, di arricchire il proprio sapere con citazioni e dati.

    La vita di Adolf Hitler, dalla nascita avvenuta in un piccolo centro dell’Austria fino agli ultimi giorni nel bunker di Berlino dove nel 1945 avvenne poi il suo suicidio, è narrata in maniera lineare, a volte concisa, ma puntuale.

    Molto interessante è la parte iniziale, quella in cui sono ricostruiti i primi passi del dittatore che doveva poi sconvolgere il mondo.

    Sono ricordati in particolare gli esordi come pittore poi non accettato dall’Accademia di Vienna e, pertanto, ben presto disilluso su quello che poteva essere il proprio percorso artistico; i giorni drammatici della Prima Guerra Mondiale alla quale Hitler prese parte ed in seguito a cui maturò le sue idee di rivalsa e di supremazia; il mancato colpo di stato e la prigionia durante la quale scrisse la sua Mein Kampft, il libro in cui riversò il proprio pensiero ed il proprio programma politico; l’ascesa al potere.

    Man mano che seguiamo Hitler nel suo cammino noi posteri, che ben conosciamo gli esiti di quei passi, assistiamo con inerme raccapriccio al crescere della sua follia, perché follia pura fu. Quella stessa follia che lo portò nel settembre del 1939 ad invadere la Polonia e a dare il via al più sanguinoso conflitto mondiale della storia dell’umanità, nonché alla persecuzione più crudele mai avvenuta nei confronti di coloro che non reputava rientrassero nei suoi ideali di grandezza e di perfezione razziale – ebrei prima di tutto, ma anche avversari politici, disabili, omosessuali, zingari, ecc.

    Oggi, a distanza di un secolo da quei giorni, ci crogioliamo nell’effimera sicurezza che eventi come quelli che accaddero allora non possano accadere più, che idee come quelle non possano più risorgere, ma è appunto una sicurezza effimera e instabile. Menzognera. Molte delle notizie che ci raggiungono nelle nostre tranquille e tiepide case – per richiamare le parole del grande Primo Levi, che sulla propria pelle visse quella follia – ce lo confermano.

    Ecco perché è importante continuare a raccontare di quei giorni bui, continuare a leggere libri come questi. Affinché mai più possa accadere un massacro così raccapricciante come quello al quale Hitler diede vita.

    Vittoria Caiazza

    Adolf Hiler – Il mostro dietro la follia di Tyrone G. Rose (self published e-book, 2025)

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  • Maico Morellini, lo scrittore del fantastico

    Maico Morellini, lo scrittore del fantastico

    Da qualche parte dell’Emilia-Romagna abita e lavora uno scrittore che si può fregiare di essere presente su Wikipedia. Si tratta di Maico Morellini, segno zodiacale Scorpione, molto attivo nella letteratura fantastica italiana. Che sia qualcuno che, in futuro, potrà dettar legge stilistica nella scrittura creativa? Ai posteri la possibilità di saperlo; per ora, Maico, si fa strada in campo letterario con buoni risultati.

    Sei un autore abbastanza noto. Qual è la più grande soddisfazione che ti sei guadagnato?

    La mia più grande soddisfazione corrisponde anche all’inizio della mia carriera letteraria: nel 2010 ho vinto il Premio Urania con “Il Re Nero”, il mio romanzo d’esordio. È stato un grande riconoscimento che mi ha fatto fare un salto di qualità mentale: se prima scrivevo nell’incertezza, insicuro sulla qualità dei miei lavori, vincere il Premio Urania ha testimoniato che avevo – e ho – qualcosa da dire. “Il Re Nero” è stato anche un modo per raccontare in chiave fantascientifica la mia adorata Emilia-Romagna.

    Fantascienza, fantasy o horror: cosa preferisci?

    In generale, non sono un grande amante delle etichette e in più, come autore, tendo a contaminare molto i miei lavori. Commistione e fusione di generi con un unico timone a guidare la mia navigazione letteraria: scrivere narrativa fantastica. Ecco, per me esiste solo un grande contenitore che è appunto quello della narrativa fantastica. Sia essa horror, fantascienza, fantasy o weird. Leggo e scrivo muovendomi senza preconcetti in tutti questi ambiti.

    Parlami del tuo processo creativo.

    Ammetto di non avere un processo creativo consolidato. Per quanto riguarda la narrativa breve, intendo i racconti, tutto è abbastanza preciso e metodico. Il racconto, per me, è un piccolo grande meccanismo a orologeria. Deve avere tempi precisi, rigorosi. Deve svolgersi in uno spazio ristretto perciò tendo a concepirlo e a strutturarlo in modo molto preciso. Non lascia tanto spazio all’improvvisazione. Nei romanzi, invece, cerco di restare ed essere il più libero possibile. Ci sono alcuni momenti chiave, tipicamente inizio e strutture intermedie ma mi è capitato più di una volta che il finale prendesse direzioni impreviste. L’idea di progettare un romanzo in tutte le sue parti, dettagliandolo con una scaletta molto metodica, mi toglierebbe il piacere di scrivere. Dunque cerco di lasciare spazio all’improvvisazione. E, ovviamente, ogni romanzo ha un suo processo creativo personalizzato. A volte uso strumenti grafici, a volte mappe mentali: dipende dalla complessità da cosa sto scrivendo.

    Kenji Albani

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  • A House of Dynamite

    A House of Dynamite

    Gli ultimi diciotto minuti prima che un missile atomico non identificato atterri su Chicago, visti da diversi punti di vista: la Situation Room della Casa Bianca, una base missilistica in Alaska, il Pentagono, lo studio ovale del Presidente degli Stati Uniti.

    Era davvero forte l’impazienza di esultare per il grande ritorno di Kathryn Bigelow, dopo otto anni di assenza dalle sale dopo Detroit. Tuttavia la visione di A House of Dynamite porta con sé una domanda: cosa è successo alla regista di Zero Dark Thirty e The Hurt Locker? Forse nulla, giacché il mondo filmico e non è nel frattempo profondamente cambiato.

    Con tutta la volontà di analisi, A House of Dynamite si presenta come cinema delle lodevoli intenzioni, dei moniti ragionevoli, di modi del raccontare incapaci di uscire da sé. Vuoi che la formula Netflix regge ormai l’urto di qualsivoglia autorialità, vuoi che il nervoso documentarismo di Bigelow è ormai pienamente assimilato dai mass media, vuoi che la minaccia nucleare è una questione che non si accontenta più delle tautologie e del monito alla circospezione.

    È vero, viviamo in una casa piena di dinamite, con un dito sempre pronto sul pulsante a farcela esplodere sotto i piedi; è vero, la sicurezza mondiale si regge su una rete di ambiguità, preconcetti ed errori umani; è vero, ogni attacco e contrattacco equivale al lancio di una moneta, sperando sempre che anche stavolta atterri sul lato buono. Non sorprende che gli unici a indignarsi davvero siano stati quelli della CIA, con una circolare in cui l’agenzia garantisce l’accuratezza al 100% dei suoi lanci – ma si sa, non si chiede all’oste se è il vino è buono. E cionondimeno, non si capisce quali coscienze questo A House of Dynamite debba mai risvegliare, specie presso un pubblico che ormai consuma l’apocalisse giornalmente.

    Gli intenti sono lodevoli: gli ultimi minuti prima della catastrofe atomica, raccontati tante volte quante sono le paia di occhi incollate ai monitor nelle stanze dei bottoni; una struttura sobria e anti-catartica, una specie di Rashomon nucleare privo di qualsiasi risoluzione; una meditazione anche profonda sugli apparati di difesa quali immane caverna platonica, coi poveri umani che si arrabattano a interpretare le ombre sul muro digitale; A House of Dynamite è senz’altro un film che fa e continuerà a fare la fortuna degli accademici, una tipica opera più bella da analizzare che da guardare. Altrettanto lodevole è la volontà di Bigelow di fermarsi sobriamente al di qua della deflagrazione, di non fornire catarsi né risposte: non siamo certo nel territorio di Threads (Mick Jackson, 1984) o di The Day After (Nicholas Meyer, 1983), e la regista di Strange Days e Il buio si avvicina conosce bene le confortanti insidie della distopia al cinema. E purtuttavia il meccanismo non funziona, la narrazione cubista non sa che fare se non ribadire, intensificare, dire con altre voci la sua stessa premessa, sempre dando l’impressione di aggirare un indicibile che – per necessità o scelta che sia – resta sempre al di qua dell’opera; il dramma si ritorce su se stesso, crea microdrammi senza mordente, esplora microstorie dalla fine del mondo a cui non sa o non può dare il giusto respiro.

    A poco servono le eleganti scelte visuali, la metafisica del paesaggio, il crepuscolarismo di un mondo votato alla tenebra incombente della devastazione; ancor più si perdono nel mucchio le interpretazioni – tutte brillanti – di Rebecca Ferguson, di Jared Harris, di un eccezionale Tracy Letts in abiti militari o di un Idris Elba più che mai credibile come Presidente; sotto l’abito, personaggi più o meno comuni, ma nessuno che abbia modo o abilità per infondere un reale movimento drammatico alla rigida de-struttura registica.

    Alla resa dei conti, A House of Dynamite va preso per quel che è: una versione più seriosa de Il Dottor Stranamore, ritratto più neutro che neutrale di un paese che ha imparato ad amare la bomba. E dopotutto, l’unico vero messaggio a cui il film sa dar voce non è altro che quanto recitava giò Pasolini in Requiescant (Carlo Lizzani, 1967): che la guerra è maledetta, e maledetti siamo tutti noi che la facciamo.

    Fabio Cassano

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  • Fanali – “Nun me scetà” Fanali plays Sergio Bruni e Roberto Murolo (Phonotype Records)

    Fanali – “Nun me scetà” Fanali plays Sergio Bruni e Roberto Murolo (Phonotype Records)

    A raccontare – a narrare – la città di Napoli, con i suoi vicoli, e le sue ombre in chiaroscuro, da secoli e secoli ci pensa la canzone napoletana, il cui mito e la cui tradizione sono perpetuate e ravvivate da generazioni di maestri: solo per restare al Novecento, si va dagli ultimi eredi degli chansonnier dell’epoca classica, Ernesto e Roberto Murolo, autori di melodie da antologia, fino alle rivoluzionarie incursioni vocali di Sergio Bruni, lo spartiacque. Tra memorie, ricordi e anniversari (vent’anni dalla scomparsa di Murolo), il progetto di Fanali, ovvero Michele De Finis, Caterina Bianco e Jonathan Maurano, dedicato a brani di Bruni e Murolo, appare come un viaggio minimalista, tra echi, elettronica e tappeti sonori cinematografici, che scardina orpelli e arie in maniera sana, ma evocativa, e restituisce, nella fase dell’arrangiamento, un lavoro profondo, intimista, ma sempre provvisto della giusta dose di omaggio. Il duo dei brani di entrata, la title track Nun me scetà e Voce ‘e Notte, non vengono decostruiti ma rimangono sorprendentemente affascinanti nella voce della Bianco. Asciugati di un contorno musicale agée, restano integri nel loro elettro-minimalismo; la stessa sobrietà che emerge anche in ‘Na Bruna, brano affidato a Roberto Colella che garantisce un maggiore spessore vocale, e poetico, e un approccio “filmico”. Indifferentemente, tra i pezzi cult di Sergio Bruni (e tra i più reinterpretati), diventa un elettro-blues rock, profondo, cadenzato, che non muore nella sua nuova vita, ma mantiene il suo aspetto malinconico. Narrazione, cantato e tracce quasi strumentali: lungo questo perimetro il disco si muove e semina, come si vede in Canzone Doce e Amaro è ‘o Bene con la voce di Altea, che regala una chiave quasi urban, femminile e suadente. L’integrità sonora e la linearità del progetto “Nu me scetà . Fanali plays Sergio Bruni”, sorprendono: per il percorso pre-scelto delle tracce, per l’efficace vena evocativa, tra elettronica e campionamenti minimalisti, e per il focus autoriale dei brani, mai decontestualizzati, ma ricostruiti in base a una scelta caratterizzante di lavoro compositivo e di immagine. L’album elabora un tracciato post-rock da saggiare dal punto di vista visivo e anche concettuale.

    Sergio Cimmino

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  • Aiello-Bartiromo-D’Avanzo-Esposito-Sambuca-Saporito: i conti con… Conte

    Aiello-Bartiromo-D’Avanzo-Esposito-Sambuca-Saporito: i conti con… Conte

    C’è chi segue il calcio per professione e chi per passione nel nostro paese che, ricordiamo, vive quotidianamente di fatti calcistici. Quasi sempre, comunque, nel caso degli addetti ai lavori la motivazione professionale e quella passionale si mescolano.

    In questo numero cercheremo di raccogliere un certo numero di punti di vista, da esperti del settore o da tifosi, o da esperti e da tifosi, su Antonio Conte, classe ‘69 da Lecce, allenatore campione d’Italia con il Napoli al primo anno. Per i partenopei si tratta del quarto scudetto, vinto all’ultima giornata sull’Inter campione uscente.

    Sentiamo Francesca Aiello, opinionista web curatrice della pagina Un giorno all’improvviso e conduttrice del live collegato a essa.

    Antonio Conte è un uomo diretto, chiaro senza peli sulla lingua.  È molto apprezzato per la sua schiettezza: è stato chiaro sin dai primi giorni di ritiro a Dimaro, quando ad alcuni tifosi azzurri che gli chiedevano di rinnegare il suo passato disse che  non lo avrebbe mai fatto ma avrebbe dato da quel giorno il 100% per la maglia azzurra. Si è dimostrato sempre disponibile verso i tifosi, sia a fine allenamenti sia in giro per la città con la famiglia, non ha mai negato un autografo o una foto. 

    Forse per la prima volta nella sua carriera lui, uomo del sud, ha trovato il calore del popolo meridionale.

    Passando al versante tecnico, parliamo di un allenatore vincente. È riuscito a far rinascere il Napoli dalle ceneri lasciate da Garcia, Mazzari e Calzona, e ha centrato la vittoria del titolo il suo primo anno sulla panchina azzurra.

    Il suo gioco, detto sinceramente, non è bello.  A volte risulta noioso ma è quello classico all’italiana e finché si vince va bene e fa bella figura.

    Il pregio principale che gli riconosco è che dà il 101% nel lavoro, è maniacale nel preparare le partite e soprattutto negli allenamenti.

    I difetti?  Nelle interviste, quando le cose vanno male, dà l’impressione che la colpa non sia mai sua. Soprattutto in questo momento in cui i risultati non arrivano (e, lo ricordiamo, abbiamo perso 3 partite nelle prime 11 giornate), ha dato segni di insofferenza imputando alla squadra di non seguirlo come faceva l’anno scorso… Situazione surreale dopo una campagna acquisti che ci doveva vedere protagonisti assoluti su tutti i fronti.

    Ora Alessia Bartiromo, giornalista sportiva.

    Per  me l’Antonio Conte allenatore, è tra i più bravi e preparati d’Europa ma credo che il fatto di avere delle idee molto integraliste sia croce e delizia. Per avere un’idea ancora più chiara bisognerebbe assistere agli allenamenti del Napoli durante l’anno e ciò non ci è permesso ma credo che, a volte, scendere a compromessi e cercare un’alternativa non sia sempre segno di debolezza, ma anche di grande intelligenza. A gusto personale, non amo particolarmente il suo calcio meno spettacolare e più “risultatista” ma, se è quello che aiuta a vincere una squadra in un momento difficile, perché no. Credo che il Napoli in questo momento della sua storia voglia accrescere il suo palmarès e che le crisi interne e di spogliatoio possano essere gestite al meglio da un uomo forte come Conte che ha la piena fiducia di De Laurentiis.

    Conte tecnico? Caratterialmente, e dal punto di vista personale e umano, credo che Antonio Conte sia una persona molto determinata, uno stakanovista. Abbiamo un integralista che cerca di conciliarsi con un uomo estremamente pragmatico ma anche empatico: è una persona di gran cuore. A chi sposa la sua causa e quella della squadra che allena dà tutto, ci mette la faccia e protegge il suo gruppo da ogni pressione, polemica e attacco mediatico. Il giorno della festa scudetto sul lungomare lo abbiamo visto in una veste diversa: ha dimostrato quanto possa essere “tenero”, arrendendosi alla gioia. Credo che siano state proprio le emozioni di quelle ora a determinare la sua permanenza qui all’ombra del Vesuvio. Mi piace tantissimo anche la sua disponibilità con i tifosi, non risponde mai male e, per quanto possibile, concede sempre foto e autografi in giro per la città.

    Per Katia D’Avanzo, avvocato e procuratore sportivo Fgci, irpina di origine e lombarda di residenza, il tecnico salentino che ha un palmarès notevole rappresenta un ‘assoluta garanzia sotto tutti i punti di vista anche se non mancano le criticità sotto il profilo umano.

     Parlare di Antonio Conte significa parlare di una delle figure più iconiche e divisive del calcio italiano contemporaneo. Uomo di passione, disciplina e idee chiare, Conte è riuscito nel corso della sua carriera a lasciare un segno profondo ovunque sia passato —da giocatore, da capitano e poi da allenatore.

    Antonio Conte incarna la cultura del lavoro. Chi lo conosce racconta di una persona ossessionata dal miglioramento, dalla ricerca costante della perfezione e dal rispetto delle regole. È un uomo diretto, spesso ruvido, ma autentico. La sua schiettezza può dividere, ma non lascia mai indifferenti.

    Nel calcio moderno, dominato da diplomazia e frasi fatte, Conte è l’opposto: viscerale, trasparente, talvolta impulsivo. Non finge, non recita un ruolo. È se stesso, sempre. E questo lo rende tanto amato dai suoi tifosi quanto difficile da gestire per le società.

    Le sue rotture —con Juventus, Inter o Tottenham —nascono da una visione etica del lavoro: o si dà tutto, oppure meglio fermarsi. Eppure, la domanda resta: dopo aver vinto lo scudetto a Napoli, non sarebbe stato meglio andarsene da vincente, invece di addossare le colpe ad altri o al mercato?

    Conte, si sa, vive di tensione. E a Napoli, come spesso accade, quel fuoco rischia di diventare incendio: spogliatoio sotto pressione, ambiente elettrico;  e l’ intensità richiesta dal tecnico che da benedizione può tramutarsi in condanna.

     Sul piano tecnico, Conte è uno degli allenatori più autorevoli dell’ultimo ventennio. Il suo marchio è il 3-5-2, ma ridurre il suo calcio a uno schema sarebbe ingiusto. Conte è un costruttore di squadre, un tecnico che plasma identità, mentalità e organizzazione tattica in tempi record.

    Alla Juventus ha ricostruito un ciclo vincente, restituendo orgoglio e fame dopo anni di mediocrità. Con l’Inter ha rotto l’egemonia bianconera e rilanciato il calcio italiano in Europa. In Inghilterra, al Chelsea, ha introdotto la difesa a tre, rivoluzionando un campionato intero.

    Come tecnico, lo ammiro per la competenza e la coerenza. Come uomo, lo rispetto per la veracità che trasmette. Come figura pubblica, lo considero uno degli ultimi allenatori che ancora vivono il calcio con l’intensità di una volta.

    Antonio Conte è, e resta, un simbolo di ambizione e rigore. Può piacere o meno, ma è grazie a persone come lui se il calcio italiano continua ad avere un’identità forte: quella del lavoro, del sacrificio e del coraggio di non accontentarsi mai.

    I suoi punti di forza sono la preparazione maniacale, la motivazione feroce e la cura del dettaglio.Il suo limite, invece, è forse l’incapacità di durare nel lungo periodo: la sua intensità brucia energie, tanto nei giocatori quanto in se stesso.

    Come uomo, lo rispetto per la caparbietà e per l’onestà intellettuale. È anche un grande comunicatore— e questo, nel calcio di oggi, vale quasi quanto la competenza. Conte ha saputo costruire un’immagine forte di sé, capace di preceddere persino il club che rappresenta.

    Ha trasformato la propria passione in un marchio di fabbrica. Ha reso la parola “Conte” sinonimo di intensità, sacrificio e vittoria.

    Anche se la sua figura può dividere, un dato è innegabile: in lui convivono la cultura italiana del lavoro duro e una mentalità europea proiettata al risultato.

     Per Carmen Esposito volto dello “Sport in  Campania” in onda su Televomero, il giudizio su  Antonio Conte uomo è molto sintetico.

    Non conoscendo Antonio Conte personalmente mi sembra superficiale dare un giudizio dell’uomo sulla base di quello che i media ci mostrano. Ovviamente quello che vediamo è un “parziale” che non ci dà la reale percezione totale della persona.

    Più articolato il giudizio sul Conte tecnico.

    Come tecnico ha sempre dimostrato di essere un vincente alla guida di grandi club, tra cui il Napoli dello scudetto 2024/25. È una persona di polso, caparbia e testarda, da buon pugliese. Per me sono tutti pregi, naturalmente:  per questo suo carattere è difficile possa scendere a compromessi, segue le sue idee senza mezzi termini. Ricordiamo le sue dimissioni al Tottenham, e una velata minaccia durante la conferenza stampa post Bologna-Napoli fa tremare il popolo azzurro. 

    Quanto ai difetto penso ne abbia uno in particolare: non accetta la sconfitta. Sicuramente questo porta a pretendere sempre tanto, a reagire con carattere ma in alcuni casi può ingenerare un calo di lucidità. Ci sono momenti in cui bisogna saper perdere, riconoscere ed accettare una situazione e cercare di fare ancora di più squadra. 

    Personalmente riguardando il lavoro fatto fin qui credo soltanto che avrebbe dovuto dare più continuità alla squadra vincente dello scorso anno. Non condivido alcune scelte sui giocatori, poi si sa: se un giocatore sente di non avere la fiducia del mister chiede di andare via. Tutto sommato comunque da tifosa napoletana sono fiduciosa che la crisi attuale si supererà.

    Per Rossella Sambuca, tele-giornalista sportiva, Antonio Conte è un allenatore combattivo, esigente e pragmatico, rinomato per il suo carattere passionale e per il suo impatto dirompente sulle squadre. È un “martello tattico” che lavora instancabilmente per tirare fuori il massimo dai giocatori, spronandoli oltre i loro limiti. Il suo stile di allenamento molto strong, mira ad ottenere risultati immediati e a costruire squadre arcigne, ferree e vincenti. Conte è noto per la sua mentalità tattica e la sua capacità di adattarsi alle diverse situazioni di gioco. La sua attenzione ai dettagli e la sua capacità di prendere decisioni rapide gli permettono di ottenere risultati positivi. Oltre aa vere grande abilità tattica, Conte è anche un allenatore molto motivante. È in grado di ispirare e motivare i suoi giocatori, spingendoli a dare il massimo sul campo, e creando così un ambiente di lavoro positivo e stimolante.

    In conclusione, le caratteristiche di Antonio Conte allenatore sono determinazione, passione, mentalità tattica, motivazione, fermezza e dedizione al lavoro. A Napoli il primo anno ha conquistato il quarto scudetto, sicuramente a oggi c’è bisogno di ricostruire uno spogliatoio spaccato e trovare la giusta unione.

     Lagiornalista sportiva Eugenia Saporito  analizza il difficile momento dei campioni d’Italia  reduci dalla brutta sconfitta di Bologna  per 2 a 0, sconfitta che ha reso quelli successivi giorni carichi di dubbi in un ambiente come quello partenopeo ormai (ri)abituato a vincere. E ci fornisce anche un pronostico sul campionato in corso.

    Ai tempi di Garcia speravo ardentemente che Antonio Conte potesse vestire la maglia del “corsiero del sole” ma azzurro.

    Abbiamo sofferto, aspettato, sperato e tifato. È arrivato portando il Napoli in vetta dopo l’anno disastroso post-terzo scudetto. Ho sempre sperato di vederlo combattere in azzurro, anche se forgiato nel cuore e nel sangue dal bianco e dal nero. Un po’ come il sacro e il profano. Finalmente, poi, l’ho visto festeggiare sia allo stadio Maradona che sul pullman, in quella giornata magnifica di sfilata sul lungomare più bello del mondo. Scenografia da brividi. Reputo Antonio Conte una persona ispirante che, con la sua mentalità vincente, induce e tutti a guardare l’asticella con il naso all’insù. È un buon comunicatore nel bene, poco nel male. Gli “contesto” il suo parlare sempre senza troppi filtri. Saper comunicare è un’arte che ancora in pochi sanno praticare, lo capisco. Sulla tecnica, la sua impronta di gioco è il non gioco. Spesso le verticalizzazioni e impostazione di un gioco che gira vengono a mancare. Brutto da vedersi, a tratti noioso ma spesso vincente.Per me la favorita resta l’Inter ma attenzione alla Roma. Quanto al Napoli, tutto dipende dal recupero degli infortunati e dagli innesti che potrebbero arrivare con la prossima finestra di mercato. Acquisti mirati e intelligenti per sopperire agli eroi ormai non più arruolabili degli ultimi due scudetti. Idee di gioco e moduli verranno di conseguenza.

    Stefano Marino

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  • Pori dilatati e pelle lucida? Ecco la skincare per riequilibrarli

    Pori dilatati e pelle lucida? Ecco la skincare per riequilibrarli

    Caldo, umidità e stress ambientali mettono a dura prova la pelle, soprattutto quella mista o grassa. I pori si dilatano, la zona T inizia a brillare già a metà mattina e trovare il giusto equilibrio tra idratazione e opacità sembra una missione impossibile.Tutto parte da una skincare mirata, pensata per riequilibrare la produzione di sebo senza aggredire la pelle.I pori sono minuscole aperture sulla superficie della pelle, fondamentali per regolare la traspirazione e il sebo. Quando però la produzione di sebo è eccessiva, spesso per motivi ormonali, climatici o legati alla skincare sbagliata, i pori si dilatano per lasciarlo uscire più facilmente.Il risultato è 
-  Pelle oleosa e lucida, soprattutto su fronte, naso e mento
-  Pori visibilmente dilatati
-  Maggiore tendenza a imperfezioni, comedoni e punti neriPer riequilibrare la situazione spesso si pensa che la pelle lucida vada “asciugata” con detergenti aggressivi e trattamenti astringenti. Ma la verità è che più aggredisci, più la pelle produce sebo per difendersi, quindi la chiave è riequilibrare, non sgrassare.

    Ecco la routine ideale:

    1. Detergente delicato, ma purificante

    Scegli una mousse o un gel detergente con attivi sebonormalizzanti, come acido salicilico, zinco PCAo niacinamide, ma a base delicata e non schiumogena. Così elimini il sebo in eccesso senza seccare.

    2. Tonico riequilibrante o mist opacizzante

    Evita gli astringenti alcolici. Meglio un tonico o un’acqua spray con estratti vegetali lenitivi (come amamelide, tè verde, bardana) e agenti opacizzanti naturali.

    3. Siero seboregolatore + idratante leggero

    Il miglior amico della pelle lucida? Un siero leggero a base di niacinamide, acido salicilico o zolfo colloidale, seguito da una crema oil-free ma idratante.
→ Sì all’acido ialuronico, pantenolo o beta-glucano, che idratano senza ungere.

    SPF opacizzante ogni giorno

    Il sole stimola la produzione di sebo e peggiora l’aspetto dei pori. Usa sempre una protezione solare viso con finitura matte, magari con ingredienti anti-brillanza come silica o polveri minerali soft focus.

    Consiglio extra: attenzione alla detersione eccessiva

    Lavare il viso troppo spesso o con prodotti troppo forti può aumentare l’effetto rebound, rendendo la pelle ancora più grassa. 2 detersioni al giorno, mattina e sera, sono più che sufficienti.Con la skincare giusta, pelle lucida e pori dilatati non sono più un problema.
La chiave è usare i prodotti giusti, con attivi efficaci ma non aggressivi, e avere costanza. Bastano pochi gesti mirati per ritrovare una pelle più uniforme, fresca e radiosa.

    Alice Freddi

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  • L’anestetizzazione delle emozioni in una realtà iperconnessa

    L’anestetizzazione delle emozioni in una realtà iperconnessa

    Paul Watzlawick, psicologo e filosofo tedesco, parlando di comunicazione umana affermava che “è
    impossibile non comunicare”. Un’affermazione che non necessita di ulteriori spiegazioni.
    Comunicare è un bisogno umano primario, che permette di esprimere se stessi, costruire relazioni,
    condividere conoscenze e connettersi con gli altri. Comunicare ci consente di stabilire rapporti
    significativi; un’azione più complessa di quanto si pensi, in quanto coinvolge non solo le parole, ma
    anche il linguaggio del corpo e il tono della voce. Tutto è comunicazione e spesso comunichiamo
    anche quando crediamo di non farlo. Quando non riusciamo a esprimere le nostre emozioni
    possiamo trovarci di fronte a quella che potremmo definire una “anestesia emotiva”: l’incapacità
    di “liberare” ciò che proviamo, e sentiamo, che ci porta spesso, inconsciamente, a forme di
    isolamento. L’anestesia emotiva è, di fatto, l’incapacità di entrare in contatto con le proprie
    emozioni. Una condizione che non va confusa con l’apatia (o assenza di emozioni), poiché la
    persona anestetizzata emotivamente sperimenta forti emozioni: non è però in grado di
    comprenderle, o si rifiuta di comprenderle essendo incapace di elaborarle correttamente
    (‘repressione emotiva”).
    Le nostre emozioni hanno una funzione indispensabile: sono la nostra bussola interiore e vanno
    accolte, anche se negative; a patto che le si sappia gestire, infatti, anche queste ultime sono
    utilissime. Si pensi alla paura e alla rabbia: la paura parla (sussurra) al nostro istinto di
    sopravvivenza, la rabbia ci serve a comprendere le cose che non ci piacciono, che non fanno per
    noi, dalle quali allontanarsi. Le emozioni quindi sono lo strumento principale per conoscerci
    dentro, per illuminare o manifestare i nostri lati più oscuri, e orientarci verso le giuste direzioni.
    A determinare l’anestesia emotiva possono convergere diversi fattori, come meccanismi di difesa
    disfunzionali, esperienze traumatiche, patologie pregresse quali depressione, disturbi psicotici,
    dissociativi o dell’alimentazione; ambiente educativo troppo rigido e violento. Di seguito
    prendiamo in esame l’anestetizzazione-apatizzazione delle emozioni dovute all’abuso di Internet,
    forse la vera minaccia per le giovani generazioni. Quanto c’è di vero negli studi che evidenziano un
    collegamento tra isolamento digitale e aumento della “anemotività” proprio tra i giovani? I social
    media hanno un impatto notevole sulla nostra psiche, e questo perché sono progettati per essere
    delle vere e propri droghe, cioè per creare dipendenza, attraverso i meccanismi dello
    sconvolgimento percettivo (contenuti sensazionalistici, gonfiati, fake news) e della gratificazione
    immediata. Gli smartphone sono gli strumenti che ci servono per muoverci meglio nella frenetica
    iper-connettività richiesta dai social. A lungo andare essi ci desensibilizzano rispetto a ciò che ci sta
    intorno, e a chi ci sta intorno, e ci costringono a concentrarci sul nucleo delle nostre reazioni
    egoriferite. Ricevere like, commenti o condivisioni: tutta dopamina che ci fa sentire bene, e ci
    induce a stare più di tre-quattro ore di fila al giorno sui social. Ma, proprio come una droga, non ci
    basta mai, ne vorremmo sempre di più, e a un certo punto non riusciamo più a tollerare che
    quell’attenzione che in quel determinato momento siamo riusciti a far convergere su di noi svanisca. E
    subentra l’ansia di tornare a essere subito al centro dell’interesse, e la depressione se questo non
    avviene in pochi minuti. Prigionieri nel nostro individualismo emozionale, perdiamo il contatto con
    la realtà e non riusciamo neanche a renderci conto di quello che ci succede. È la
    tossicodipendenza da social network.

    Maria Simona Gabriele

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  • Meloni: il referendum non sarà preludio di un governo… ponte

    Meloni: il referendum non sarà preludio di un governo… ponte

    Fino a ieri dei politici velleitari e imbroglia-folle si diceva che promettevano mari e monti, la luna; oggi di quella stessa categoria di politici si potrebbe dire che promettono… il ponte sullo Stretto di Messina! Con una differenza fondamentale: quei mari, quei monti e quella luna in effetti corrispondevano a reali aspirazioni o desideri del pubblico degli elettori, il ponte sullo Stretto, invece, praticamente non lo vuole nessuno, a parte il governo e qualche lobby edilizia. Di quest’opera si parla, a intervalli regolari, almeno dai tempi del governo Craxi: e da allora la gran parte degli abitanti della Sicilia e della Calabria non ha mai deposto le sue perplessità di fondo riguardo al progetto. Per alcuni (per molti) il ponte è una fantastica opportunità, per i più semplicemente non serve. Ci sono i traghetti e le compagnie di navigazione, che da che mondo è mondo hanno sempre funzionato benissimo. Chi scrive non può che sottoscrivere, reduce da un viaggio dalla Calabria alla Sicilia con traversata dello Stretto fatta naturalmente in traghetto: ecco il punto, se col governo ci sono alcune (magari anche parecchie) lobby di costruttori, dall’altra parte c’è la lobby dei naviganti!

    Il governo ha veramente voglia di inimicarsela? È lei la vera avversaria del ponte, molto più degli ambientalisti e degli oppositori politici, e certamente anche dei magistrati della Corte dei Conti che il 30 ottobre hanno dichiarato nulla la delibera con cui il Cipess (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile), il 6 agosto, aveva approvato di fatto l’avvio dei lavori. Più che contro il governo, si potrebbe dire che i magistrati si sono schierati dalla parte del popolo, evidenziando – tra le altre criticità – la lievitazione fino al 50% dei costi di realizzazione rispetto a quelli preventivati in partenza. Costa troppo, dicono i giudici contabili da un lato; ne vale veramente la pena?, sembra che aggiungano i cittadini in coro a completar la sentenza.

    A dispetto di magistrati e cittadini, il governo ha detto che andrà avanti con la cantierizzazione dei lavori. Per bloccarli una volta per tutte ci vorrebbe un referendum, che con tutta probabilità Meloni e i suoi ministri perderebbero.  Al referendum si andrà certamente, invece, sulla riforma della giustizia, la madre di tutte le battaglie di questo gabinetto: qui l’esito in realtà è tutt’altro che scontato, eppure la premier sente il bisogno di ragionare come se dovesse già fare i conti con lo scenario peggiore. Giorgia Meloni ha tenuto a ipotecare per tempo l’ultimo scampolo di legislatura (un anno scarso) che resterà dalla celebrazione della consultazione al ritorno alle urne: anche qualora gli italiani bocciassero sonoramente la separazione delle toghe, ha dichiarato senza indugio, il suo esecutivo andrà avanti, non si dimetterà. Rinuncerà a tagliarsi la coda. Dieci anni dopo la storia si ripete: nel 2016 Matteo Renzi era talmente sicuro di vincere il referendum sulla riforma costituzionale da proclamare spavaldamente che si sarebbe dimesso in caso contrario (anche lui e la sua squadra di governo erano ormai arrivati quasi agli sgoccioli della legislatura, ma Renzi non si trovava a Palazzo Chigi da quando era iniziata) e alla fine si verificò l’ipotesi a cui il presidente del Consiglio fiorentino disdegnava di riconoscere adeguata plausibilità; adesso Giorgia Meloni va anche oltre Renzi e proclama che è talmente sicura di vincere il referendum sulla riforma della giustizia da escludere a priori ogni possibilità di abbandonare Palazzo Chigi. Gioca sul tavolo della scaramanzia, è evidente: se al suo predecessore ha portato piuttosto male evocare con troppa sfrontatezza la probabilità meno augurabile (ma diciamo anche la più sciagurata) per un governo, lei fa “un passo indietro” (che in realtà è un bel passo in avanti, quanto a sicurezza ostentata) e rinuncia a considerare qualsiasi altra strada diversa dalla prosecuzione. Magari a oltranza: una manciata di mesi in trincea e poi via, alle urne, messo in cassaforte il traguardo personale dell’esecutivo di legislatura (di sicuro conta molto anche questo, per la Meloni) e con buone probabilità di incassare una riconferma. La presidente del Consiglio, quindi, si prepara già a coprirsi con “prudente” presunzione. Ma, a ben vedere, dove non arriva con la sua naturale accortezza ci pensa un fattore particolare a darle una mano: la non così accesa ostilità dell’opinione pubblica nei suoi confronti. Troppo facile fare il confronto con Matteo Renzi, dopo un solo anno di governo divenuto inviso a tanti che non gli perdonavano un’ascesa fulminea quanto immeritata e neppure sopportavano più il suo ardore giovanile misto ad arroganza. Sarebbe forse più appropriato confrontare la Meloni con altri “mostri” di longevità al governo, Craxi e Berlusconi. Da punto di riferimento della sinistra moderna Craxi divenne a un certo punto, mentre la sua brillante esperienza di governo lo rendeva un leader sempre più autorevole, l’uomo più odiato d’Italia: la sua colpa, aver fatto capire con troppa chiarezza di essere un politico dalla statura troppo superiore a quella di tanti altri. E da punta di diamante dell’imprenditoria d’assalto degli anni ’80 Berlusconi, il tocco midiaco di chi non fallisce mai portato anche in politica, finì con l’essere reso insopportabile da quello stesso tocco midiaco e dalla troppa fortuna, che con i suoi potenti mezzi poteva anche riorientare a proprio vantaggio qualora non gli ricadesse addosso in modo del tutto perpendicolare. Giorgia Meloni fino a questo momento non pare che venga percepita come la più brava o la più fortunata (il vantaggio di essere un’underdog, si potrebbe dire), e certamente non sembra accendere fortissime antipatie (a parte quelle che, da donna, si attira da parte di altre donne  e l’avversione “istituzionale” delle opposizioni): in fondo è la condizione ideale per avere successo e non rischiare di diventare martiri o vittime di congiure.

    Gianluca Vivacqua

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