psicologia

L’anestetizzazione delle emozioni in una realtà iperconnessa

Paul Watzlawick, psicologo e filosofo tedesco, parlando di comunicazione umana affermava che “è
impossibile non comunicare”. Un’affermazione che non necessita di ulteriori spiegazioni.
Comunicare è un bisogno umano primario, che permette di esprimere se stessi, costruire relazioni,
condividere conoscenze e connettersi con gli altri. Comunicare ci consente di stabilire rapporti
significativi; un’azione più complessa di quanto si pensi, in quanto coinvolge non solo le parole, ma
anche il linguaggio del corpo e il tono della voce. Tutto è comunicazione e spesso comunichiamo
anche quando crediamo di non farlo. Quando non riusciamo a esprimere le nostre emozioni
possiamo trovarci di fronte a quella che potremmo definire una “anestesia emotiva”: l’incapacità
di “liberare” ciò che proviamo, e sentiamo, che ci porta spesso, inconsciamente, a forme di
isolamento. L’anestesia emotiva è, di fatto, l’incapacità di entrare in contatto con le proprie
emozioni. Una condizione che non va confusa con l’apatia (o assenza di emozioni), poiché la
persona anestetizzata emotivamente sperimenta forti emozioni: non è però in grado di
comprenderle, o si rifiuta di comprenderle essendo incapace di elaborarle correttamente
(‘repressione emotiva”).
Le nostre emozioni hanno una funzione indispensabile: sono la nostra bussola interiore e vanno
accolte, anche se negative; a patto che le si sappia gestire, infatti, anche queste ultime sono
utilissime. Si pensi alla paura e alla rabbia: la paura parla (sussurra) al nostro istinto di
sopravvivenza, la rabbia ci serve a comprendere le cose che non ci piacciono, che non fanno per
noi, dalle quali allontanarsi. Le emozioni quindi sono lo strumento principale per conoscerci
dentro, per illuminare o manifestare i nostri lati più oscuri, e orientarci verso le giuste direzioni.
A determinare l’anestesia emotiva possono convergere diversi fattori, come meccanismi di difesa
disfunzionali, esperienze traumatiche, patologie pregresse quali depressione, disturbi psicotici,
dissociativi o dell’alimentazione; ambiente educativo troppo rigido e violento. Di seguito
prendiamo in esame l’anestetizzazione-apatizzazione delle emozioni dovute all’abuso di Internet,
forse la vera minaccia per le giovani generazioni. Quanto c’è di vero negli studi che evidenziano un
collegamento tra isolamento digitale e aumento della “anemotività” proprio tra i giovani? I social
media hanno un impatto notevole sulla nostra psiche, e questo perché sono progettati per essere
delle vere e propri droghe, cioè per creare dipendenza, attraverso i meccanismi dello
sconvolgimento percettivo (contenuti sensazionalistici, gonfiati, fake news) e della gratificazione
immediata. Gli smartphone sono gli strumenti che ci servono per muoverci meglio nella frenetica
iper-connettività richiesta dai social. A lungo andare essi ci desensibilizzano rispetto a ciò che ci sta
intorno, e a chi ci sta intorno, e ci costringono a concentrarci sul nucleo delle nostre reazioni
egoriferite. Ricevere like, commenti o condivisioni: tutta dopamina che ci fa sentire bene, e ci
induce a stare più di tre-quattro ore di fila al giorno sui social. Ma, proprio come una droga, non ci
basta mai, ne vorremmo sempre di più, e a un certo punto non riusciamo più a tollerare che
quell’attenzione che in quel determinato momento siamo riusciti a far convergere su di noi svanisca. E
subentra l’ansia di tornare a essere subito al centro dell’interesse, e la depressione se questo non
avviene in pochi minuti. Prigionieri nel nostro individualismo emozionale, perdiamo il contatto con
la realtà e non riusciamo neanche a renderci conto di quello che ci succede. È la
tossicodipendenza da social network.

Maria Simona Gabriele

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