Regionali d’autunno: vince l’usato sicuro
No, per somma sfortuna del Pd non può esserci un De Luca in ogni parte d’Italia. Non c’è in ogni regione un politico navigato e di carisma capace di passare, con carisma, dalla guida di un capoluogo di provincia a quella della Regione. Eppure Matteo Ricci nelle Marche per il Pd era certamente il miglior candidato possibile: un sindaco bravo e amato, che negli anni della sua amministrazione ha fatto crescere Pesaro senza crescendo rossiniani ma al contrario seguendo un percorso ragionato di rilancio. Nelle Marche Ricci, che tra l’altro solo un anno fa era stato eletto al Parlamento europeo in modo plebiscitario, era davvero un pezzo da novanta: ecco perché la sua sconfitta brucia, brucia pesantemente. Quella di Tridico in Calabria non brucia invece così tanto perché l’ex presidente dell’INPS, brava persona e tecnico specchiato, è la classica soluzione alla Cinque Stelle di cui i cittadini fondamentalmente, finita l’ondata di innamoramento per la politica fatta dai non-politici, si sono stancati. La destra, intanto, vince con l’usato sicuro, sia in tellus Bruttiorum che nella regione spartita nell’antichità tra Umbri, Piceni, Etruschi e Galli Senoni. Occhiuto, addirittura, ha rivinto pur essendo stato costretto a scendere dalla giostra del governo regionale per un’indagine in una storia di corruzione: probabilmente gli elettori hanno premiato il suo coraggio nel rimettersi in piedi subito, senza colpo ferire, e nel riprendersi lo scranno più alto di Palazzo Campanella passando per i carboni ardenti.
Perché la sinistra perde sempre, a parte qualche isolata eccezione? Analizziamo prima il lato M5S: qui c’è una vera e propria penuria di nomenclatura. L’antico vincolo grillino dei due-mandati-e-a-casa ha fatto sì che il partito più votato d’Italia tra il 2013 e il 2020 non avesse materialmente il tempo di far crescere una classe dirigente vera e propria. Solo adesso, con la riforma di Giuseppe Conte, che ha ridisegnato il movimento come un partito di centro-sinistra tradizionale, si sta lavorando a colmare questa lacuna. Ma ci vuole ancora qualche legislatura di tempo, e probabilmente qualche altra brutta debacle da collezionare: per il momento si continua a vista, con i non-politici di prestigio mentre i grillini della prima ora che sopravvivono all’esaurimento dei loro mandati intraprendono una carriera da solisti, come si direbbe in ambito discografico.
E nel Pd? Qui il problema sta nel sostanziale disinteresse della segretaria Schlein per le diramazioni locali del partito che guida. Ma diremmo anche per ogni tipo di organigramma: la Schlein è un animo movimentista, dà il meglio di sé nelle mobilitazioni di piazza e nell’opposizione oratoria in Parlamento. Datele una protesta per Gaza, e sarà protagonista infuocata e appassionata (una pasionaria, come in fondo continua a essere anche la premier Meloni), convinta dei suoi ideali; datele, al contrario, il compito di tirare la volata a un candidato in un comune o in una regione, e la vedrete giocare al superenalotto. Con tutto l’entusiasmo possibile, beninteso (il sorriso non le manca mai), che però le serve per nascondere quelle insicurezze che ogni giocatore di superenalotto ha nell’approcciarsi alla schedina di competenza. Nel cuore della massima responsabile nazionale del Partito democratico c’è pur sempre la studentessa dei cortei, ed è lì, in quel safe garden (e quindi in quella comfort zone) che ha coltivato la sua visione politica.
Discorso tutto diverso invece per il centrodestra. Qui si è trovata una quadra tra i partiti che lo compongono che nemmeno il partito unico di Berlusconi era riuscito a realizzare. L’egemonia incontrastata è di FdI, con Forza Italia e Lega a fare da gregari. La prima, però, si presta a questo ruolo per una debolezza interna evidente (Forza Italia non è più un partito traino, ma un partito satellite a rischio annessione da parte renziana, specialmente dopo che la leadership tajaniana avrà lasciato spazio a una guida meno berlusconiana); la seconda invece lo fa chiaramente controvoglia, aspettando in riva al fiume che passi il cadavere dei postfascisti. Da qui al 2027 non si vede come il governo Meloni e la sua maggioranza possano essere scalzati, se non dovesse acuirsi qualche crepa proprio tra Lega e FdI. Salvini tiene a freno la sua vocazione ribaltonista, da buon allievo di Bossi, perché deve guardarsi le spalle: dal Veneto, con Zaia che non succederà a se stesso, sta per arrivare la minaccia più consistente alla sua leadership.
A parti invertite, l’usato sicuro si conferma anche in Toscana, il 13 ottobre. Secondo mandato per Giani (PD).
Gianluca Vivacqua
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