28 Anni Dopo
28 Anni Dopo
Titolo originale: 28 Years Later
Regia: Danny Boyle
Produzione: UK/USA, 2025
Durata:
Cast: Alfie Williams, Aaron-Taylor Johnson, Jodie Comer, Ralph Fiennes, Edvin Ryding
Sono trascorsi ventotto anni dall’epidemia di rabbia che ha sprofondato la Gran Bretagna nel caos. Il dodicenne Spike (Alfie Williams) vive insieme al padre Jamie (Aaron-Taylor Johnson) e alla madre inferma Isla (Jodie Comer) in una comunità chiusa sull’isola di Lindisfarne. Spike viene condotto dal padre sulla terraferma infestata dagli infetti, come prova iniziatica per entrare nella società adulta del villaggio. È solo l’inizio, per il giovane, di un viaggio alla scoperta di se stesso e di un mondo fisicamente e moralmente distrutto dalla pestilenza.
Non saranno realmente passati ventotto anni dacché il britannico Danny Boyle colpiva gli schermi col capolavoro 28 Giorni Dopo. Fa innegabilmente piacere riscoprire come un classico ormai consolidato dell’horror appaia, al giorno d’oggi, ancora più dirompente e attuale che alla sua uscita nell’anno di grazia 2002: in un’epoca che ha assistito a non meno di due collassi economici, uno stato di militarizzazione crescente e la più grave pandemia degli ultimi cento anni, la pellicola che immaginava il Regno Unito soccombere al virus della rabbia ha forse più da dire oggi che allora – nell’iperrealismo del suo orrore, nella pregnanza del suo dramma, nella violenza del suo stile e, infine, nella pletora di epigoni belli e brutti (a cominciare dal mediocre seguito 28 Settimane Dopo del 2007) che hanno frattanto infettato il cinema globale.
Nominalmente vicino al filone moderno dello zombie movie (nel quale ha notoriamente fatto scuola), 28 Giorni Dopo era in realtà saldamente radicato nella linea nobile del cinema apocalittico inglese: non è arduo riconoscere, sotto gli espliciti rimandi a Romero e alla sua saga dei Morti Viventi, la continuità con un cinema che tra piccoli e grandi schermi aveva regalato, almeno da Quatermass in poi, gioielli come 2000: la Fine dell’Uomo di Cornel Wilde e l’imprescindibile Threads (1984) di Mick Jackson, vero araldo di un senso tutto britannico per la catastrofe e la maledizione di esservi superstiti; di tutti questi 28 Giorni Dopo aveva saputo elaborare il pessimismo, il gusto per il dramma, l’ostilità a qualsiasi compromesso della rappresentazione.
Va da sé che era forte la voglia di acclamare 28 Anni Dopo come ritorno a un grande cinema di genere. Sulla carta c’era già tutto lo sperabile: il ritorno di Boyle alla regia, quello di Alex Garland (ormai grande firma a sé) alla sceneggiatura, la sperimentazione con la ripresa digitale. Per il terzo atto della saga, Boyle immagina un nuovo medioevo inglese, triviale quanto simbolico (Lindisfarne fu notoriamente prima vittima delle incursioni vichinghe), si arma di iPhone, droni e action cam e modella un mondo neo-primitivo mai troppo lontano dall’orizzonte iper-mediatico odierno. La gioia del filmare è autentica, la furia del montare è intatta; nei suoi momenti migliori, 28 Anni Dopo sa ancora restituire lo scabro fascino no-budget del suo modello, sa rievocarne la studiata ruvidezza delle forme, recupera la potenza di uno stile che sapeva costeggiare il documentarismo senza coincidervi; è poi senz’altro lodevole come Boyle non spinga la ripresa in iPhone a rivaleggiare con lo standard professionale, bensì ne esalti i limiti, le asperità di un’immagine ribelle al controllo.
Disgraziatamente il problema è in tutto il resto. Bisogna essere disposti al più ottuso sofisma per rintracciare, in 28 Anni Dopo, una risposta estetica e tematica pregnante ai terrori del nostro tempo: poco da fare, la contiguità del film di Boyle con le ansie di oggi sembra esistere, più che nel film, in testa a chi ne scrive. Al meglio il lavoro si rende interessante per tutto quanto non sa dire, per il discorso sull’oggi di cui non trova gli estremi, per la maniera in cui le preoccupazioni moderne – dalla pandemia all’escalation militare e alla Brexit – affogano nella congerie di tropi comuni, nella rigidità stereotipica delle figure, nelle piccole e grandi forzature di una scrittura che non sa come muovere i personaggi nel senso necessario. Non è certo d’aiuto la rigida struttura bipartita del film – due atti tra un prologo e un epilogo in odore di post-credits – a fronte di un capostipite che sapeva esibire ben altra compattezza.
A questo punto lo stile si fa maniera, la forma non sa darsi ordine (gli inserti digitali sono un pugno nell’occhio), la qualità tattile dell’immagine non fa che vestire a festa un umanesimo dozzinale. Contano i singoli momenti e le singole immagini, il cui simbolismo pure non ha profondità; contano la grana e i pixel, conta il furore della macchina a mano e del montaggio; contano gli inserti dai cinegiornali e dall’Enrico V di Laurence Olivier; conta l’angosciante cantilena di Boots, capolavoro di Kipling nell’eccezionale resa di Taylor Holmes;contano gli intenti e non i risultati, le ambizioni di un’opera che poteva e voleva incendiare il cinema serializzato d’oggi e non ha saputo farlo.
Non saranno trascorsi ventotto anni, ma siamo più poveri di prima. Visto dal drone, il cinema è come l’Inghilterra di 28 Anni Dopo: terra di storie non-morte e di altre mai nate, palude di un immaginario che ha sbranato se stesso, avamposto che non sa più cosa sta proteggendo.
Fabio Cassano
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