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Pasolini, un uomo contro

1922-1975: l’alfa-omega della vita di Pier Paolo Pasolini racchiude (dalla nascita del fascismo agli anni della strategia della tensione con i suoi attentati e le sue stragi) uno dei periodi più oscuri della nostra recente storia, con le sue illusioni, i falsi miti, le mancate certezze, le atrocità, gli inganni, gli intrighi, la caduta delle ideologie, le nostre miserie umane e morali. Anni quindi di sogni e di contraddizioni, dove uno scrittore (che è stato poeta, narratore, regista, drammaturgo, saggista, giornalista…) ha vissuto la sua rimbaudiana saison en enfer, in una sorta di dantesca discesa agli Inferi, per cercare la verità del nostro tempo, con la “furia della confessione” prima, poi con la “furia della chiarezza”. E nella selva oscura della sua esistenza maledetta ha incontrato la sua stessa “figura ingiallita dal silenzio” (come si definiva) ed ha narrato di essere stato poeta e di aver cantato la “divisione delle coscienze, di chi è fuggito da una città distrutta, per andare verso una città che deve essere ancora costruita”, ovvero quel suo irrealizzabile “sogno di un cosa” (la speranza tutta marxista di un mondo migliore). Una città (Roma) che nascondeva il Potere occulto (con la P maiuscola) capace di ogni scelleratezza, meschina e nevrotica, ai cui margini (nella periferia abbandonata dove lo scrittore si era sempre mosso e in modo kafkiano aveva trovato la morte) ogni strada finiva, anche la sua, e dove metaforicamente si dissolveva il paese meraviglioso dell’infanzia (Casarsa), l’Eden ormai perduto della felicità, l’hortus conclusus della sua scrittura, il materno reditum ad uterum. Roma, invece, (la “città di Dio”, come la chiamava, del Potere politico e della Chiesa corrotta (si legga la raccolta di poesie L’usignolo della Chiesa Cattolica e la poesia A un Papa contenuta in La religione del mio tempo) nascondeva nel suo ventre il fanatismo di una borghesia cinica, l’ipocrisia della nostra cultura e delle nostre istituzioni ed era altresì l’espressione di un’opinione pubblica cresciuta sul condizionamento televisivo e sociale, ideologico e culturale, e per questo sempre pronta a colpevolizzare e a giustiziare chi la pensa diversamente o chi si oppone: “… accusino pure ogni mia passione – scrisse nella poesia Frammento alla morte – m’infanghino, mi dicano informe, impuro, ossesso, dilettante, spergiuro…” ma la realtà è che: “Tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere…avere, possedere, distruggere. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra in borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

Luigi Martellini

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