Michael J. Fox, ragazzo del futuro
Sarà certamente deluso chiunque si aspetti una cronistoria linda e pinta delle ascese e derive – artistiche e personali – di Michael J. Fox: si tenga pure da parte chi cercava aneddoti di prima mano su Vittime di guerra o Mars Attacks,ad ancor più debita distanza chi era in vena di più o meno profonde riflessioni sulla malattia a cui Fox alza da più di trent’anni il medio.
Il ragazzo del futuro è anzitutto una piccola e preziosa riflessione sul mestieraccio del fare cinema, una storia non-lineare della genesi di Ritorno al futuro e delle tre vite di Fox in quel folle 1985: la fiaba di sé come canadese trapiantato a Hollywood e baciato dal successo, del suo Doppelgänger Alex P. Keaton nella sit-com Casa Keaton, e soprattutto di lui, Marty McFly, ragazzo del futuro. Per il resto c’è poco o nullo spazio, solo il meno fortunato licantropo Scott (in italiano Marty, pensa te) di Voglia di vincere ulula ogni tanto dalla traversa.
Per chi non sa cosa doversi aspettare, sarà quanto meno da apprezzare lo sforzo perseguito da Fox e Fortenberry nel voler replicare in scrittura l’andamento ondivago del film, il trattamento elastico del tempo riavvolto e rimaneggiato come occasione di scoperta e riscoperta del sé – umano, attoriale, generazionale. È l’tinerario, quello tracciato nel libro, di una lavorazione fatta di mille accrocchi e riaggiustamenti, gli stessi che saranno occorsi a Doc per trasformare un bizzarro fallimento dell’automotive in macchina del tempo e dei sogni. Tante le variabili, troppe, branche di un multiverso incombente a cui solo il seguito, nel 1989, avrebbe angosciosamente dato corpo col suo tortuoso acrobatismo tra le linee temporali: dalla DeLorean che rischiava di essere un frigo (Spielberg pensò ai bambini e temette il peggio) alla maniacale autodisciplina di Crispin Glover, il cui George è nevrotica amalgama di una visione attoriale e registica ai ferri corti; dal braccio di ferro tra i due Bob – Zemeckis e Gale – e la produzione, alla perenne bomba a tempo di Casa Keaton e della sua impietosa agenda; dai doppi e tripli turni di Fox in deprivazione da sonno a Eric Stoltz, il primo e sfortunato Marty rimpiazzato dopo sei settimane di riprese.
Chi lo sa, forse in un’altra timeline Stoltz è ancora Marty e Ritorno al futuro un grazioso prodotto di nicchia, un Buckaroo Banzai più introspettivo a cui Stoltz ha donato il marchio della tragedia che vedeva in Marty: quella di tornare a un presente spuntatogli davanti in un attimo, di un’infanzia felice regalata a tutti fuorché a se stesso, di un passato di frustrazioni e fallimenti mai più esistito se non nel ricordo. Letture, varianti d’artista, variabili impazzite nella sfida di forgiare un cult; Fox tuttavia non abbraccia la tragedia, la vede ma ci passa sopra col suo skateboard, imprime al suo Marty la levità e il panico di un inadeguato che continua a crederci. «Siamo sul pesante», riflette Marty, ma non per questo c’è da abbandonarsi alla gravità.
Questione di tempo, soprattutto quello che non c’è: il tempo di una dormita in auto tra casa Keaton e Hill Valley, di strimpellare Johnny B. Goode e invocare gli dei del plettro da Chuck Berry a Pete Townshend, il tempo di affiatarsi e riaffiatarsi con un organico che bene o male si ricordava un Marty diverso; non il tempo di chiedersi se si sta facendo bene, se l’avventura durerà o si dovrà andar via, se i compagni d’avventura Christopher Lloyd, Lea Thompson e Charlie Croughwell (inseparabile e ardimentoso stuntman al servizio di Marty) diventeranno gli amici di una vita o rimarranno figure in una foto che, si spera, non li cancelli sbiadendo.
Sono quarant’anni che ritorniamo al futuro, quattro decadi che hanno visto il cinema commerciale e non ben saldo all’ombra di un classico: un’opera che ha resistito alle indefesse spinte musealizzanti, alle riletture critiche più divisive, alla minaccia della proliferazione di remake, soft reboot e – iddio ce ne scampi – magari un non richiesto legacy sequel; un’eccezione che ha retto perfino alla deriva artistica di un regista, Zemeckis, all’ombra di un sé più giovane e meno in impasse di fronte al tempo e al modo di inscenarlo. Non è sempre stato così: l’eterno ritorno al futuro è la nostra vera legacy, il lascito da portarsi sull’isola dopo ogni disastro, la consapevolezza che i capolavori sono frutto di metodo, disperato ottimismo e qualche fortunata coincidenza; e il sorriso al pensiero che Michael J. Fox può riguardarsi nello schermo dopo tanto tempo, ringraziarci e ringraziarsi per l’ottimo lavoro e dirsi infine che sì, quella volta ha spaccato davvero.
Forse è sempre troppo presto per fare il bilancio di un classico ma, come ci rassicura Marty, ai nostri figli piacerà.
Fabio Cassano
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