OH, CANADA – I tradimenti
Titolo Originale: Oh, Canada
Regia: Paul Schrader
Produzione: USA, 2024
Durata: 95′
Cast: Richard Gere, Jacob Elordi, Uma Thurman, Michael Imperioli, Penelope Mitchell, Kristine
Froseth, Caroline Davhernas, Jake Weary
Il regista Leo Fife (Richard Gere), noto per i suoi acclamati documentari di denuncia, vive da molti anni in Canada, dove si era recato in gioventù per evitare l’arruolamento per la guerra in Vietnam. Malato terminale e accudito dalla moglie Emma (Uma Thurman), Leo accetta di essere intervistato nella sua casa di Toronto da un regista suo ex-studente (Michael Imperioli), per la realizzazione di un documentario che celebri la sua vita e carriera di impegno civile; per il cineasta è l’occasione di fare i conti col passato, ma soprattutto di svelare la rete di bugie che egli ha costruito negli anni.
Vi è senz’altro un che di testamentario in questo Oh, Canada, l’opera con cui Paul Schrader adatta il romanzo Foregone dell’amico Russell Banks (alla cui memoria il film è dedicato). Non è il solo caso, in un’epoca che vede i maestri lasciarci e pochi talenti prenderne il posto: si pensi a David Cronenberg, che quantomeno da Crimes of the Future pare voler mettere in scena una fine avvertita come imminente. Nell’ultimo decennio Schrader ha scartato a lato, indifferente alla temperie critica e teso ad affinare un raccontare per immagini il quale, a partire almeno da The Canyons e fino ai recenti First Reformed e Il Collezionista di Carte, si è fatta sempre più ieratica, rarefatta, all’inseguimento perenne di quel cinema “trascendentale” che il regista di American Gigolo e Mishima è stato tra i pochi a raggiungere; un cinema realmente calvinista quanto e più del suo autore, nella riflessione indefessa sulla colpa e su una salvezza da demandare a chi ne sa meglio.
Non vi è forma di ammiccamento alcuno, in questo cinema fatto di silenzi e di pause: nessuna enfasi, nessuna concessione al virtuosismo, nessuna catarsi che una vita vera non possa dare. A Schrader non serve neanche più citare i maestri (Bresson e Ozu su tutti), non insegue il calco né la citazione, non ha più bisogno di magie per plasmare il suo piccolo teatro del mondo: bastano una stanza, pochi personaggi, una serie di ingannevoli flashback senza ombra di nostalgia, il bianco e nero come zona grigia tra presente e aoristo di una singola vita. Più di ogni cosa, il volto consumato di Richard Gere, da cui l’età ha finalmente cancellato ogni divismo residuo; lo avevamo lasciato dietro le sbarre in American Gigolo, per ritrovarlo ridotto al proprio indispensabile: ancora
imperfetto, prigioniero, colpevole come il peccato, umanissimo nel gesto minimo di un attore che sa dare tutto proprio quando non ha più nulla da dimostrare. Alla parlata rauca e allo sguardo minuto di Gere tocca traghettare il racconto, segnare le tappe della confessione privata di Leon.
“Non siamo peccatori in quanto pecchiamo, ma pecchiamo in quanto peccatori”: ce lo ricordava il cattolicissimo Abel Ferrara in The Addiction, e Schrader pare essere d’accordo. Leon sfata a ogni passo il mito che un’intellighenzia ottusa gli ha cucito addosso negli anni, l’olimpo dell’arte a cui non importa dei suoi adulteri, della Cuba che ha costeggiato senza raggiungere, della mitologica fuga verso il Canada e la libertà vera. Leon fonde e confonde, si proietta sulla scena delle vite passate, dà il cambio al suo giovane alter ego (Jacob Elordi) e infesta con la sua vecchiaia gli anni della giovinezza; mescola e duplica, rattoppa col presente un passato che pare sfuggirgli, crea doppi e gemelli, confessa e delira. Schrader rilancia, inventa il suo linguaggio e lo tradisce, gioca coi formati di ripresa, concatena immagini nelle immagini senza compiacimento.
È una dichiarazione di intenti: la verità o niente.
Nessuna vertigine: Oh, Canada non sa che farsene di giochi metatestuali, non corteggia il postmoderno, non mira alla potenza del falso. Vero credente, Schrader crede ancora all’importanza dell’immagine, sa il mistero sacro del filmare, conosce le perversioni del filmico. Al cinema si muore per sempre, la macchina cattura la vita che va via: la prossima generazione non avrà per forza pudore, non si fermerà di fronte all’atto di sparire, non resisterà al terrore di un mondo che non può riavvolgere.
Sullo sfondo la frontiera del Canada, senza cancelli né clamori, un confine tutto sul passo di chi lo attraversa. La camera fissa congela un paesaggio indistinto, il country distorto dei Phosphorescent trasforma l’inno canadese in litania; Gere/Leon guarda in macchina e non ha nient’altro da dirci. Non serve altro per il testamento artistico, spirituale, umano di un regista vivo come Paul Schrader,
il coraggio di lasciare al pubblico un’opera irrisolta e di non volerla risolvere. Nessuna liberazione, ci si libera da sé: non c’è alcuna Land of the Free se non quella dell’anima; che la si insegua, e così sia.
Fabio Cassano
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